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Sodo Caustico

Sodo caustico. Regalo di Natale anticipato per le banche nazionali.

 

Le banche ci credono: l’iter per la rivalutazione delle quote in Banca d’Italia entro la fine del 2013 sembra impegno certo del governo Letta, così si potranno vedere gli effetti sui bilanci 2013, che diversamente si prevedono difficili per la mole di svalutazioni ed accantonamenti preventivabili (i crediti in sofferenza del sistema sono 181,7 miliardi su 1.397,8 miliardi di crediti erogati, il 13% del totale).

L’assetto proprietario attuale di Bd’I è il risultato di fusioni, privatizzazioni, trasformazioni delle banche che, una volta pubbliche, nel tempo si sono anche aperte all’azionariato privato; nel caso di Banca d’Italia, l’essere azionista non porta a indirizzare od indicare la rotta della gestione, lasciata interamente alla struttura della Banca.

Molte banche azioniste di Banca d’Italia vorrebbero liquidare la loro partecipazione, nel tempo lievitata in valore, seppure avara di soddisfazioni in termini di dividendi; le banche italiane principali posseggono complessivamente l’89.33% del capitale della banca centrale. I principali azionisti sono IntesaSanPaolo (42,18%), Unicredit (22,1%), Generali (6,3%), INPS (5%), Carige (3,9%), CRAsti (3,1%), BNL (2,8%), MPS (2,5%), Cariparma (2,1%),FonSai (1,3%), Allianz (1,3%), B.Popolare (1,2%).

Le domande che non hanno ancora trovato risposta sono molte: quale è il valore del patrimonio di Banca d’Italia? A quale prezzo si può valorizzare, quindi anche vendere, la partecipazione? A chi si può vendere la partecipazione? In caso di “ri-valutazione” delle quote in Bd’I, quale è il trattamento contabile e fiscale per le banche azioniste? Come verrà trattata la “ri-valutazione” ai fini della “Asset Quality Review” della BCE?

Queste domande, semplici nella formulazione, sono assai complesse nella risposta, e vediamone la ragione.

Il patrimonio della banca centrale è di 36,7 miliardi di euro, inclusi i fondi rischi generali; a normativa attuale, non corre l’obbligo per le banche azioniste di allineare il valore della quota posseduta al valore del patrimonio della banca centrale; alcune banche adottano il criterio del costo storico, altre hanno adeguato il valore della partecipazione negli anni; tali singoli valori rappresentano quindi la base su cui calcolare la (eventuale) plusvalenza da rivalutazione, su cui dovrebbe applicarsi (condizionale d’obbligo) una tassazione ad una aliquota ancora da definire dal Governo. La fissazione di tale aliquota è elemento non secondario di valutazione dell’intera operazione. Sempre che si arrivi ad una tassazione (vedi, infra).

Trattandosi di partecipazione in una banca centrale, non quotata e soggetta a restrizioni nella circolazione delle sue azioni, una trattativa per la cessione di una sua quota deve essere “benedetta” da Via Nazionale e soggetta alle sue indicazioni; “contendibilità” e “liquidità” dello strumento sono quindi modeste e soggette a molteplici vincoli.

La “ri-valutazione” del patrimonio di Bd’I è indicata, secondo fonti attendibili (Sole, 31.10.2013), in 7 miliardi, con un gettito fiscale atteso di 1 miliardo (vedi, infra).

La “rivalutazione” potrebbe essere ben superiore, se si facesse ulteriore riferimento ad una eventuale maggior valutazione dell’oro depositato nel caveau di Bd’I (che è pari a 79 milioni di once, al valore di 1.150 euro ad oncia, circa 90,8 miliardi di euro).

Punto centrale della posizione delle banche è la “computabilità” delle quote in Bd’I ai fini del calcolo del patrimonio di vigilanza delle singole banche: le banche sono interessate ad una “ri-valutazione” delle quote se questo si traduce in un aumento del loro patrimonio ai fini del calcolo della loro solidità patrimoniale; diversamente, cade l’interesse all’intera operazione. Contabilmente, le quote detenute dalle banche in Bd’I sono oggi considerate “attività detenute sino a scadenza” (“held to maturity”) e quindi valorizzate al valore indicato dalla singola banca come “costo storico”; in caso di “ri-valutazione”, le quote passerebbero alla categoria “trading book” od a quella “available for sale”: in tal caso, scatterebbe il loro “passaggio” a conto economico con conseguente tassazione della maggior valutazione che sarebbe considerata plusvalenza realizzata nell’esercizio (soggetta ad una tassazione sopra indicata e stimata in 1 miliardo); il netto andrebbe ad aumento del patrimonio netto; ma poi le quote in Bd’I, così rivalutate, sarebbero considerate partecipazioni finanziarie e quindi andrebbero computate in diminuzione del patrimonio netto (appena incrementato del valore netto come sopra indicato) ai fini della determinazione del patrimonio di vigilanza. Per interrompere questo “circolo vizioso” (che non porterebbe beneficio effettivo alle banche), le banche chiedono al governo che le quote in Bd’I non siano considerate, e quindi computate, come partecipazioni finanziarie. Senza questo “passaggio”, le banche non avrebbero nessun interesse concreto all’operazione.

Ecco alfine forse spiegato il mistero: l’obiettivo finale del progetto appare quello di apportare patrimonio “a costo zero” alle principali banche nazionali, che non riescono, alle attuali condizioni, a raccoglierlo sul mercato dei capitali.

Con buona pace delle anime buone che credono all’impegno così spesso conclamato: il finanziamento all’impresa.

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Liberiamo!

I video di Liberiamo – Andrea Ichino a Liberiamo la Scuola!

L’intervento di Andrea Ichino all’incontro organizzato da Liberiamo il 22 ottobre 2013 a Milano, in via Caradosso 14.

Fai Click sull’immagine qui sotto.

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Liberiamo!

Liberiamo la Scuola! – Intervista ad Andrea Ichino

 

A valle dell’incontro LIBERIAMO LA SCUOLA!, la bella intervista di Fabio Ronchi ad Andrea Ichino.

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I video di Liberiamo! – Carlo Lottieri a Liberiamo la Scuola!

Intervento di Carlo Lottieri, durante l’incontro di Via Caradosso 14, 22 ottobre 2013.

Fai click sull’immagine.

Carlo Lottieri
Carlo Lottieri
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Sodo Caustico

Sodo caustico. Tassazione sui fondi di investimento: si va alla cassa, o forse no.

Muore il famigerato sistema di tassazione sul “maturato” per i fondi di diritto italiano, equiparandone il regime a quello dei fondi armonizzati di diritto europeo, i cui proventi sono tassati sulla base del criterio per cassa al momento della vendita; disposizione tardiva, visto che nel frattempo, proprio a causa di tale differenza sostanziale, i gestori italiani hanno spostato parte significativa della loro attività verso Irlanda e Lussemburgo. Il classico autogol italiano. Il nuovo regime di tassazione dei fondi italiani (diversi dai fondi immobiliari) e dei fondi lussemburghesi storici è entrato in vigore a partire dal 1° luglio del 2011. Il risultato di gestione maturato fino al 30 giugno del 2011 è stato assoggettato ad imposta sostitutiva nella misura del 12,5% (o del 27% sul risultato riferibile all’investimento in partecipazioni qualificate). Gli eventuali risultati negativi di gestione maturati fino al 30 giugno del 2011 possono essere utilizzati (in tutto o in parte e senza limiti di importo) in compensazione dei redditi di capitale derivanti dalla partecipazione a fondi (OICR) di diritto italiano soggetti alla ritenuta ed a fondi (OICVM) di diritto estero autorizzati e collocati in Italia. La scelta dei fondi o dei comparti con risultato negativo con i quali effettuare la compensazione è rimessa alla discrezionalità della SGR, della SICAV o del soggetto incaricato del collocamento dei lussemburghesi storici. Nell’ipotesi in cui i risultati negativi non siano stati utilizzati in compensazione al momento della cessazione del fondo o della SICAV, ai partecipanti è riconosciuta una minusvalenza computabile in diminuzione delle plusvalenze nei limiti dei quattro anni successivi, in proporzione alla quota di partecipazione.

Prima osservazione: i crediti di imposta sono utilizzabili a compensazione di redditi di fondi italiani soggetti a ritenuta (nel frattempo abolita) a discrezione del gestore, oppure al momento della cessazione del fondo; quindi, l’investitore non ne avrà alcun vantaggio certo ed immediato, restando soggetto alla decisione del gestore, ovvero sino alla data di liquidazione del fondo.

Ma a quanto ammontano questi crediti di imposta, principalmente “in pancia” a fondi azionari e bilanciati? Le ultime cifre si riferiscono a giugno 2011: 4,5 miliardi; a fine agosto 2013, il valore totale dei fondi di diritto italiano è di 160,7 miliardi; quindi, i crediti di imposta sarebbero il 2.8% del totale dell’attivo; non sono disponibili dati di dettaglio sui comparti azionari e bilanciati, stimabili in 35 miliardi; se confermati, ciò significa che oltre il 12% dell’attivo dei fondi azionari e bilanciati di diritto italiano sarebbe fatto di crediti di imposta, su cui sarà assai arduo recuperare valore; a ciò si aggiunga che avendo una percentuale inferiore a 100 da investire, i risultati ottenuti sono inferiori a quelli teorici.

Comunque la si guardi, una brutta storia per l’industria del risparmio italiano, per lo stato, per gli investitori. Comprendiamo bene perché tutto tace sull’argomento.

Tutto tace forse anche per non svegliare lo stato che dorme; per svegliarlo, una proposta indecente (ma non troppo): trasformare i crediti verso lo stato in titoli di stato negoziabili; misura forse tipica di legislatori poco propensi a considerare positivamente il mercato, ma meglio poco che nulla.

 

 

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Sodo caustico. Ignoranza di stato: quando il diavolo si annida nei particolari.

L’annuncio del governo Letta di un programma di dismissioni delle partecipazioni azionarie è fuorviante e mal riposto:le partecipazioni direttamente possedute da MEF sono: il 4,34% di Eni, il 31,24% di Enel, il 30,2% di Finmeccanica, l’80,1% di CDP. CDP non rientra nel perimetro statale ai fini del calcolo del debito pubblico. CDP possiede, a sua volta, il 25,76% di Eni, il 29,9% di Terna, il 30% di Snam, il 100% di Sace e Fintecna (che a sua volta possiede il 99,35% di Fincantieri); tutte partecipazioni acquisite negli ultimi anni su interessato impulso dei governi pro-tempore al fine di ridurre il debito pubblico. E’ quindi evidente che la cessione delle partecipazioni (in tutto od in parte) di Snam, Terna, Fincantieri non porterà ad una riduzione del debito pubblico; il debito pubblico potrà essere ridotto, attraverso la vendita di partecipazioni, in 3 modi:

(1) cessione del 4,34% di Eni, 31,24% di Enel, 30,2% di Finmeccanica direttamente possedute da MEF; Eni ed Enel hanno costantemente distribuito dividendi, che cesserebbero in caso di vendita;

(2) distribuzione di dividendi da CDP a fronte di dividendi di CDP, che potrebbero derivare dalle cessioni delle partecipazioni possedute da CDP stessa e dopo aver pagato le tasse sulle relative eventuali plusvalenze: anche una eventuale quotazione di Poste Italiane rientrerebbe in questa casistica;

(3) cessione sul mercato (quello vero: non alla CDP) delle partecipazioni in società, anche strumentali, possedute dalla P.A. centrale e periferica; pensiamo alle migliaia di società che sommano la ragguardevole cifra di 19.000 consiglieri di amministrazione sparsi lungo la penisola, Ferrovie dello Stato, ex-municipalizzate, finanziarie regionali,  porti commerciali italiani, et alia.

Manca, ed è quello più grave, un quadro razionale: chi valuta il valore delle partecipazioni; quale criterio sarà adottato per la cessione; come preparare la cessione laddove siano necessarie modifiche regolamentari; chi potrà acquistare; con quali termini e tempi per l’incasso da vendita. Tutti temi che vedono il governo “non pervenuto”.

Il diavolo fa le pentole, non i coperchi.

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Sodo Caustico

Sodo caustico. Perseverare diabolicum.

 

La pervicacia con cui sono gestite CDP e Fintecna è diabolica. In un recente Sodo caustico già scrivemmo che nel novembre 2012 la Cassa Depositi e Prestiti ha acquistato da MinEconomia il 100% di Fintecna (società in liquidazione da 13 anni: “tempus fugit”…non per lo stato italiano) per un corrispettivo (provvisorio) di 1.592 milioni, pari al 60% del patrimonio netto a fine 2011, con uno sconto del 40% e prevedendo che il restante prezzo sarebbe dovuto se e nella misura in cui sarà “ritenuto congruo” da CDP. Ci chiedemmo se era un buon affare. Domanda ingenua, visto che di affari non si interessa CDP, ma di salvataggi improbabili.

CDP ha ora deciso una riorganizzazione dei “mattoni di stato” in pancia a Fintecna Immobiliare, finora al 100% di Fintecna, e trasferita a CDP stessa. Una società anch’essa in liquidazione, che nell’ultimo bilancio ha fatto una perdita di 14 milioni e che sta progressivamente peggiorando i suoi conti.

Fintecna Immobiliare nacque come braccio operativo di Fintecna nel real estate e avrebbe dovuto curare interventi di recupero e valorizzazione: preparare alla vendita degli immobili, essendo il gruppo in liquidazione. Nella relazione al bilancio 2012 si legge che i progetti di trasformazione e valorizzazione restano bloccati in assenza di una “”propedeutica risoluzione soprattutto delle problematiche finanziarie legate agli investimenti, ai rapporti con gli istituti finanziatori e con i partners”” che includono Maire Tecnimont, gruppo Fratini, FondiariaSai, fratelli Toti. Sarebbe utile capire la ratio di queste “partnership”; ancora più utile sapere come non sono stati gestiti 868 milioni di debiti, 348 dei quali scaduti od in scadenza, che pesano sul conto economico con 26 milioni di oneri finanziari (erano 17 milioni 4 anni fa); cui si aggiungono debiti verso fornitori di 40 milioni.

Certamente Fintecna Immobiliare ce la mette tutta a cedere immobili: ben 2,6 milioni di incasso nel 2012. Nel frattempo, il costo del personale (aumentato da 92 a 122 unità) è vicino ai 13 milioni, cifra pari al fatturato aziendale.

En passant, ricordiamo che nella Legge di Stabilità 2014 il governo Letta prevede cessioni di immobili per 1.500 milioni nei prossimi 3 anni; e la vendita per 525 milioni di immobili a CDP. Lasciamo ai lettori valutare competenza e risultati de “la meglio gioventù” della pubblica amministrazione nazionale.

E non se ne vogliono andare…

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Liberiamo!

l’imposta gli è imposta

In Italia il contribuente non ha mai sentito la sua dignità di partecipe della vita statale: la garanzia del controllo parlamentare sulle imposte non era una esigenza, ma una formalità giuridica: il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato; non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L’imposta gli è imposta.

Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono contribuenti.

Le classi borghesi mancano di una coscienza capitalistica e liberistica, e cercano di difendersi, di non lasciarsi sopraffare partecipando esse pure all’accordo e facendosi pagare in dazi doganali e sussidi ciò che devono elargire in imposte.

(Piero Gobetti, Economia parassita, 1924)

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SAVE THE DATE: NUOVO EVENTO LIBERIAMO SULLA SANITA’

MARTEDI’ 26 NOVEMBRE alle 21.00 in Via Vivaio 1 presso la Sala Riunioni della Provincia di Milano, avremo il piacere di avere come unico ma qualificatissimo relatore GINO GUMIRATO sul tema “LIBERIAMO la SANITA’!

Ricordiamo che è stato consulente di Barack Obama (unico italiano) per la storica riforma della Sanità negli Usa,  già Direttore Generale della ASL di Modena durante il terremoto in Emilia e da oltre 20 anni è un Dirigente di altissimo livello nella Sanità, in perenne lotta contro gli sprechi.

Seguiranno ovviamente i dettagli soliti, l’evento su FACEBOOK e TWITTER ecc. ecc.

Nel frattempo cominciate ad evitare altri impegni in coincidenza.

E, ricordate….. fate venire tutti i vostri amici e conoscenti, soprattutto i liceali/universitari, all’incontro del 22/10, LIBERIAMO LA SCUOLA!, in via Caradosso. I dettagli sono qui a fianco e nella Pagina delle Iniziative.

Qui sotto un primo modo di mettervi in contatto con noi se volete altre notizie sull’evento o volete dare un contributo di idee/argomenti e perché no, soldi (se vi avanzano). Tutte le iniziative di Liberiamo sono infatti finanziate con sottoscrizioni dei volontari che partecipano.

Vi aspettiamo!

 

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Liberiamo!

L’UE in Libia con un centro di analisi e di intervento contro le migrazioni selvagge

Eurobserver (http://euobserver.com/justice/121766) riporta che l’Unione europea sta mettendo assieme una squadra di uomini  per aiutare la Libia a fermare le partenze di migranti indesiderati e per raccogliere informazioni.  Il servizio estero dell’Unione ha sottolineato che l’operazione Eubam Libya, che costa circa 30 milioni di euro all’anno, e avviata ad aprile scorso non prevede interventi diretti di pattugliamento e di ricerca del personale dell’Unione. La missione comprende un totale di circa 110 persone e sarà a regime completo dal 2014.

Forze di sicurezza proteggeranno il personale dell’Unione e il quartiere di Eubam a Tripoli si costituirà come un polo di servizi di informazione, con la possibilità di realizzare “analisi di alto livello sulla sicurezza” con rapporti giornalieri e settimanali.

Dal canto suo, l’agenzia Frontex sta avviando l’uso di droni aerei, comandati a distanza, per il monitoraggio delle frontiere. L’Agenzia conduce attualmente cinque operazioni congiunte per intercettare migranti illegali.

Enrico Martial

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Aiuti di Stato? Ma no … è solo un aiutino, un prestito …

Gli aiuti di stato sono vietati per legge:  “italianità”, o “dimensione strategica nazionale” sono tipicamente categorie selettive, con le quali, in modo spesso arbitrario, si stabilisce quali imprese abbiano diritto ad un vantaggio competitivo rispetto ad altre imprese, che finiscono per restare un passo indietro.

La legislazione europea, e in particolare i “regolamenti” – leggi a tutti gli effetti che si applicano direttamente negli Stati membri –  non a caso non distingue tra imprese, “strategiche” o “nazionali”. Proprio nel quadro della costruzione di un mercato aperto e libero sull’insieme del territorio europeo, la preoccupazione è appunto quella di evitare distorsioni della concorrenza, e quindi limitare o eliminare le occasioni di aiuto a singole o gruppi di imprese rispetto alle loro concorrenti.

Il Trattato vieta espressamente gli aiuti di Stato: l’aiuto, se giustificato da ragioni di sviluppo economico generale, deve quindi essere applicato allo stesso modo – in modo quindi uniforme –  in tutta l’Unione europea. Deve essere rivolto a tutte le imprese, senza essere “selettivi” rispetto a categorie come quella della “dimensione strategica” oppure “nazionale”.

Se uno Stato membro – come il nostro Paese nel caso Alitalia – non ragiona in termini di mercato unico ma di mercato nazionale, compie due errori. Il primo è politico: dopo aver tanto operato per la costruzione europea, si stupisce dei suoi effetti, mostrando la propria fragilità nella preparazione e attuazione di una politica di lungo periodo e di visione. Il secondo errore ha ricadute economiche: se non si intende che il mercato è unico, che è in quell’ambito che bisogna competere, la fuga nel proprio cantuccio nazionale costituisce una sconfitta sostanziale, anche economica.

Il caso italiano sotto questo profilo è persino culturale.

Quando si parla di aiuti di stato, in Italia anche gli esperti si concentrano sulle deroghe più che sulla volontà di non concedere aiuti, e quindi di costruire e difendere un mercato aperto. L’Italia, come Stato membro, cosciente del fatto che violare la regola di concorrenza comporterebbe un’infrazione alla legislazione europea (quindi sanzionabile), cerca di aggirarla per raggiungere il proprio scopo, cioè di realizzare un aiuto “selettivo”, sia esso rivolto ad Alitalia, o ad Ansaldo.

Vi sono varie modalità già sperimentate: dare un prestito, già sapendo che il soggetto (Alitalia) non sarà in grado di restituirlo, fare entrare nel capitale dell’azienda in crisi un’altra impresa di cui però si ha il controllo (come le Poste in Alitalia), già sapendo che il denaro speso in quest’operazione sarà consumato dal tempo, dal calo di valore dell’azione, da aumenti di capitale: e si tratta appunto come un aiuto. E poi ci sono altri modi: pagare alla compagnia il funzionamento di tratte che sarebbero antieconomiche (è il caso dell’indebitata Regione Piemonte che stava per finanziare alcune rotte per il mezzogiorno).

Formalmente però si potrà intanto negare che si tratti di un aiuto di stato, e lo si può concedere subito. La procedura di verifica di conformità da parte della Commissione europea comporta tempi più lunghi.

Ma intanto l’aiuto è dato, e poi si vedrà.

http://ec.europa.eu/competition/state_aid/overview/index_en.html

Enrico Martial

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Sodo Caustico

Sodo caustico. Contributi alla carta stampata.

Sodo caustico

Contributi alla carta stampata.

Si vive anche di contributi, ma non scrivetelo sui vostri giornali. La libertà di stampa è sacra, come i suoi contributi. Lo stato aiuta la stampa nazionale in 2 modi diversi: con contributi diretti alle imprese editrici di quotidiani e periodici; con applicazione dell’IVA al 4% sulle vendite.

Nel 2012 i contributi diretti sono stati 114.926.794,61 euro, di cui 2.065.827,54 euro alla stampa periodica all’estero, 1.032.913,79 euro a giornali della minoranza slovena, 516.456,88 euro ai periodici delle associazioni dei consumatori. Per il 2013 (“Legge di Stabilità 2013” n. 228 del 24.12.2012) i contributi diretti sono previsti in 95.703.000 euro, mantenendosi 2.065..827,54 euro per la stampa estera, 1.032.913,79 euro per la stampa della minoranza slovena, 516.456,88 euro per le associazioni dei consumatori.

Accanto al contributo diretto, più rilevante quello indiretto rappresentato dalla applicazione dell’IVA al 4% sulle vendite di quotidiani; una stima (incompleta) porta a quantificare tale “beneficio” in 160 milioni  per Corriere della Sera e Repubblica, 120 milioni per Gazzetta dello Sport, La Stampa, Messaggero, Resto del Carlino e collegati, 360 milioni per gli altri quotidiani ed oltre 400 milioni per altre pubblicazioni, per totali 1.560 milioni di euro, che sommati ai 95,7 milioni di contributi diretti fanno oltre 1.600 milioni di euro. Tanti, anche se fossero la metà (e come contribuenti ne saremmo un pochino meno “alterati”, se così fosse).

Facile essere liberi con le tasche, se non piene, almeno mezze piene.

 

 

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Sodo caustico. L’albero della Mela ha radici all’estero?

Apple è sotto accusa negli USA per aver abusato della c.d. “competizione fiscale fra paesi” per evadere, od eludere, le tasse negli USA. Le argomentazioni del Dipartimento di Stato sono chiare: la Apple, grazie ad una rete di controllate irlandesi che ricevono royalties da ogni parte del mondo per lo sfruttamento di proprietà intellettuali e “sfruttando” i trattati contro le doppie imposizioni, non paga tasse né in Irlanda né negli USA. In questo modo, la Apple avrebbe accumulato 100 miliardi di dollari, che se rimpatriati negli USA sarebbero soggetti ad una tassazione del 35%. Altrettanto serie le argomentazioni della Apple: (1) il nostro principale concorrente, la coreana Samsung, paga il 14% di tasse (contro il 35% che si paga negli USA), e questo è un evidente vantaggio competitivo; (2) con l’applicazione diffusa della sua tecnologia, la Apple ha contribuito a creare nuovi posti di lavoro nelle industrie manifatturiere e dei servizi USA (si parla di 600.000 persone), aumentare la produttività del sistema-paese, ed ha pagato 6 miliardi di tasse negli USA (la cifra più alta mai pagata).

La concorrenza al ribasso fra sistemi fiscali (che data agli anni 70 nella conservatrice Inghilterra, frutto della “de-regulation” thatcheriana) ha reso gli erari più poveri, non più ricchi; ha sottratto risorse destinabili alle necessità statali (dalla scuola alla difesa alle infrastrutture);  ha portato ad una ri-allocazione geografica di imprese e lavoro guidata da elementi “liquidi” (la fiscalità, l’efficienza finanziaria, il ritorno finanziario di breve termine) a discapito di elementi “solidi” (lo sviluppo di tecnologia, la creazione di lavoro in settori “avanzati”, la creazione di filiere industriali e di competenze); ha favorito “asimmetrie” finanziarie ed informative.

E’ corretto auspicare mercati regolati in modo equo e trasparente? Certamente aiuta il mercato.

 

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Perchè su Alitalia è meglio non fare nulla

Perchè su Alitalia è meglio non fare nulla

Bell’intervento sul tema in FARE. Riportiamo volentieri,

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Cianciando ma non troppo

Liberismo e individualismo in eccesso

Come fossero mantra, sentiamo continuamente ripetute frasi che puntano sulle colpe di un modello sociale basato sulle libertà e sui diritti dell’individuo, in particolare su quei diritti che consentono di curare i propri interessi.
Il “particulare” sarebbe questo? Fermamente no.
Dovremmo ribellarci all’idea che il corrente stato disastroso del paese sia effetto dell’eccesso di individualismo e di liberismo.
E’ esattamente il contrario: un eccesso di familismo-corporativo.
Il “particulare” è proprio questo: una dominate cultura tribal-comunitaria-relazionale che contrappone gruppi a gruppi. Devo fare esempi? O posso pensare che di esempi ne viviamo quotidinamente senza necessità che ne elenchi qualcuno anche nel nostro piccolissimo e recentissimo?
Sembrerebbe ideologia liberal-democratica. Forse, ma preferisco pensare che abbia fondamenti razionali, empirici, pragmatici.

  •  La democrazia si basa sull’individuo (una testa-un voto). La Carta dei diritti umani è fondamento preliminare a qualsiasi costituzione democratica sostanziale. Dico sostanziale perché nel nostro paese la democrazia è prevalentemente di facciata, mentre le istituzioni sono occupate da mille caste (non a caso parola tribale). Quindi l’individuo è vittima e non il colpevole. I Diritti Umani , del singolo essere umano, vanno portati alla massima evidenza possibile. I diritti umani sono una trentina di articoli molto corti; suggerisco una lettura veloce con attenzione particolare al soggetto-attore di ogni articolo.
  • Continua automatica la contrapposizione millenaria fra il modello sociale democratico e il modello clan-familistico-corporativo che si esprime, nel nostro linguaggio, in forma di contrapposizione fra interessi dell’individuo e quelli collettivi. Questo concetto è primitivo e da smontare con determinazione.
    Per un democratico la collettività non è il clan in cui si trova precipitato dalla nascita, in forma ereditaria. Non è il clan da cui non potrà mai uscire se non da morto e, nei secoli recenti, solo con il passaporto. Rammento in proposito che le comunità democratiche stanno via via eliminando sia i confini sia i passaporti. Per il democratico la comunità è quella che si sceglie lui stesso. Quella in cui partecipa alla costruzione delle regole di convivenza condivise con i propri simili, e che poi rispetta. Avete presente quelle costituzioni che cominciano con “we the people..” o quella brasiliana “Noi, rappresentanti del popolo brasiliano, riuniti…”, o quella svizzera “ ..omissis premesse … art 1 Il popolo svizzero…”. Avete presente il nostro incipit “L’Italia è una repubblica.. (cos’è l’Italia? Un territorio? Una nazione – per me odioso concetto), ma specialmente … l’Italia è l’attore primario della costituzione?). Scusate la deviazione, ma solo per esemplificare che per gli individui la collettività è un enorme sforzo di volontà, di impegno, di lavoro perché essa funzioni. Per gli individui la comunità è il risultato di uno sforzo proprio, tutt’altro che ereditato. Un sistema da difendere. Altro che egoismo e anarchia sociale.
  • La collettività democratica si regge su un principio economico altrettanto fondamentale che il riconoscimento dell’individuo: la reciprocità dei benefici e dei costi. Fare il bene proprio non è un danno alla comunità. Il danno alla collettività lo fanno i briganti. Chiunque aggiunga valore a sé stesso aggiunge valore anche alla comunità, ma…solo a condizione che non faccia danno agli altri; meglio ancora se fa un pò di bene anche agli altri. Questa è l’essenza della democrazia e l’essenza del mercato. Ogni negoziazione porta beneficio a entrambe le parti. Una cosa difficile da fare. Ma l’alternativa è il gruppo, il clan, la corporazione che non si curano assolutamente del danno che possono portare ad altre tribù, ad altre collettività. Anzi prosperano sul depauperamento degli altri clan. Mi pare sia lo stato in cui ci troviamo noi. I clan sono il cancro della nostra società, non l’individuo. Bisogna smontare l’idea che fare il bene proprio inevitabilmente implichi fare danno agli altri. Questa è un’idea primitiva e antidemocratica. E’ l’idea che i beni vadano redistribuiti, spostando risorse dalle tasche di uno alla tasche dell’altro. Niente valore aggiunto. Il modello democratico invece prevede che ogni pezzo di valore aggiunto vada prima di tutto a gratificazione di chi lo ha generato e in parte alla collettività. Bene per sé e bene per gli altri. Un sistema di merito che gratifica e aumenta il valore per i singoli e per la collettività. Cosa difficile? Certamente. Ma molto più gradevole, nei suoi risultati, che la continua e frustrante rapina reciproca.
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Sodo caustico. Fondazioni bancarie: missione impossibile.

Create per dare stabilità all’azionariato bancario attraverso la divisione fra proprietà e gestione bancaria, le fondazioni bancarie sono 88, di cui 53 possiedono meno del 50% delle azioni delle banche conferitarie, 13 hanno più del 50% delle azioni, 22 non possiedono più azioni. La legge di riordino delle fondazioni bancarie, la c.d. legge Ciampi, imponeva a tutte le fondazioni di scendere sotto il 50% di partecipazione, cosa avvenuta per le principali banche, ma ancora in parte irrealizzata.

Le fondazioni più importanti sono al Nord Ovest: esse rappresentano il 74.7% del patrimonio totale, e le 18 fondazioni più grandi hanno un patrimonio cumulato di 31.000 milioni (dati tratti dal 18esimo rapporto curato dall’Acri).

Al 31.12.2012 il patrimonio cumulato di tutte le fondazioni era 48.183 milioni, cresciuto al tasso annuo del 1.5% dal 2000, rispetto ad una inflazione annua del 2.2%. Il totale degli impieghi (attivo) delle fondazioni è di 51.002 milioni a fine 2012, e le principali voci sono: 20.200 milioni partecipazioni bancarie, 21.000 milioni strumenti finanziari (investimenti).

I proventi incassati dall’universo fondazioni sono stati  1.535,6 milioni nel 2012 (in crescita del 24% sul 2011) di cui 445,4 milioni rappresentati da dividendi distribuiti dalle banche partecipate. Gli oneri di gestione (inclusi costi del personale di 61,3 milioni, per totali 1.026 dipendenti ed una media di 11,6 dipendenti per fondazione) sono 410,7 milioni, pari al 26.7% dei proventi totali. Le spese di gestione degli organi statutari (consigli di indirizzo e di gestione) hanno avuto una crescita costante: pari all’1.5% nel 2005 sui proventi, nel 2012 sono raddoppiate al 3%, con un peso superiore nelle fondazioni piccole (8.1%) e medio-piccole (7.4%) e nel Sud (6.5%).

A fronte di tali proventi,  nel 2012 le fondazioni hanno erogato, nel rispetto dei settori di destinazione ed intervento, 965,8 milioni su 22.204 interventi sul territorio, con una media di erogazione per fondazione di 11 milioni, maggiore nel Nord Ovest (24,3 milioni) e minore al Sud (3,4 milioni); la media dei singoli interventi è stata di 39.000 euro nel 2012. Negli ultimi 10 anni le erogazioni totali sono state 15.600 milioni, e con trend calante negli anni: 1.366 milioni nel 2010, 1.092 nel 2011, con quote importanti nella salute pubblica e arte e beni culturali (ciascun settore conta circa il 30% delle erogazioni).

Nel 2011 le fondazioni hanno ricapitalizzato, complessivamente, le banche conferitarie per 1.270 milioni.

Costose, limitate nella capacità di incidere con interventi seri sul territorio, vista la relativa modesta dimensione dei singoli interventi (39.000 euro), con un patrimonio largamente ancora concentrato nelle partecipazioni bancarie, con una insufficiente diversificazione degli investimenti (ad esclusione di casi come C.R Roma che non ha più investimenti bancari, Compagnia San Paolo col 65% del patrimonio investito fuori dalla banca, Cariplo).

Le 10 fondazioni con maggiore patrimonio sono Cariplo (6.551 milioni), Compagnia San Paolo (5.622 milioni), C.R. Verona e Vicenza (2.654 milioni), C.R. Torino (1.917 milioni), C.R. Padova e Rovigo (1.745 milioni), Roma (1.445 milioni, senza partecipazioni bancarie), C.R. Cuneo (1.330 milioni), C.R. Firenze (1.305 milioni), C.R. Lucca (1.183 milioni), C.R. Genova e Imperia (1.013 milioni). La fondazione più “povera” è quella del Monte di Pietà di Vicenza con 1,7 milioni.

Il patrimonio delle fondazioni è ben investito? In caso di necessità di capitale da parte delle banche conferitarie, gli azionisti fondazioni hanno mezzi sufficienti, e volontà, di sottoscrivere nuovo capitale? Ne hanno la possibilità giuridica e la convenienza? Che cosa accade se le fondazioni non incassano dividendi sufficienti a sostenere i rispettivi piani di erogazione sul territorio? Riducendo la capacità di erogazione sul territorio, viene ridotta la loro missione di sussidiarietà sul territorio e relativo peso nell’ambito socio-politico locale.

Il patrimonio delle fondazioni è generalmente investito in modo sotto-ottimale, con una componente derivante da investimenti finanziari (tendenzialmente “sicuri”) che sono diminuiti dal 75.6% del totale dei proventi al 64.4% del 2010, 46.3% nel 2011, per risalire al71% nel 2012 (anche a causa della riduzione dei dividendi incassati).

Le fondazioni potrebbero essere chiamate a sottoscrivere nuovo capitale delle banche conferitarie; esse peraltro hanno una limitata “capacità di investimento”  e si trovano dinanzi a possibili aumenti di capitale a prezzi spesso molto inferiori a quelli di carico (in bilancio) che ne ridurrebbero il peso azionario, con relativa diluizione dell’azionariato.

 Le 7 principali banche (IntesaSanPaolo, Unicredit, BPM, MPS, Bper, Pop. Sondrio, Ubi) hanno portato a perdita 34.319 milioni totali fra il 2011 ed il 2012; dopo tali interventi “monstre” i crediti deteriorati sul patrimonio delle banche sono ancora significativi (MPS 3 volte il patrimonio); le 9 banche principali hanno avuto un risultato corrente cumulato negativo di 2.793 milioni nel 2012, con un patrimonio finale di 160.578 milioni su 1.397.779 milioni di crediti (pari all’11.5% dei crediti); ma ulteriori perdite potrebbero realizzarsi: le rettifiche fatte ai crediti anomali coprono il 37.9% dei crediti erogati e quelle fatte sui crediti in sofferenza (dove le aspettative di recupero sono basse) coprono il 54.1%.; i crediti in sofferenza sono, a livello di sistema bancario italiano, il 13% dei crediti, circa 181.700 milioni;  se si volesse provvedere ad una integrale copertura delle sofferenze bancarie con capitale proprio (secondo ragionevoli e corretti criteri, cui è peraltro possibile allontanarsi per decisione degli amministratori),  si dovrebbe metter mano alla raccolta di nuovo capitale in misura pari al 45.9% dei 181.700 milioni di crediti in sofferenza: ciò significherebbe un “deficit” di capitale di 83.500 milioni, a livello di sistema bancario, per riportare lo stesso ad una adeguato rapporto patrimonio/crediti erogati totali. Le fondazioni bancarie potrebbero coprire ¼ di tale fabbisogno, nel caso liquidassero tutti gli investimenti in strumenti ed investimenti finanziari (ipotesi peraltro irrealistica).

Le fondazioni non hanno mezzi adeguati per sostenere le banche conferitarie partecipate, anche se lo volessero. Le banche hanno necessità di capitale, almeno per una parte considerevole dell’ammontare indicato (83.500 milioni) e potranno trovarlo solo attraverso operazioni sul mercato con raccolta di nuovo capitale (cosa che porterà le fondazioni in posizione minoritaria ed a perdere il controllo).

La missione di mantenere voce in capitolo per le fondazioni ci sembra una “missione impossibile”. Nel modo meno glorioso, le banche troveranno nuovi assetti societari, patrimoniali, di controllo.

 

 

 

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Sodo Caustico

Sodo caustico. Ansaldo Energia, Finmeccanica: quando le imprese parlano (male) italiano.

L’acquisto di Ansaldo Energia, col passaggio della partecipazione da Finmeccanica a Cassa Depositi e Prestiti (CDP), ha portato all’attenzione del pubblico e degli operatori temi quali “italianità della proprietà” e “settori strategici” per la nazione; il tema vero è: Finmeccanica è ben gestita o meno, indipendentemente da chi la possiede; il trasferimento della proprietà avviene secondo regole di mercato, o meno.  

Finmeccanica è una conglomerata quotata in Borsa, con una capitalizzazione (dati al 4.10.2013) di 3.056.730.932 ed un prezzo per azione di 5,23 euro; massimo il 20.10.2010 con 10,01 euro (a fine 2010 il valore di Finmeccanica era quindi il doppio di quella di oggi), minimo il 9.12.2011 con 2,62 euro (minimo legato alle note vicende che toccarono i vertici di Finmeccanica ed alcune partecipate). MEF possiede il 30.2% della società mentre il 60.06% è nelle mani del mercato; Finmeccanica a sua volta possiede il 55% di Ansaldo Energia. La storia recente dice che Finmeccanica non è ben gestita ed i risultati economici ne danno ampia dimostrazione. Finmeccanica ha una storia industriale passata di successi (molti) ed insuccessi (alcuni); ha sviluppato importanti tecnologie in campi diversi: aeronautica, difesa, spazio, telecomunicazioni, mezzi di trasporto ferroviario; ha un patrimonio di competenze eccellenti; ha però una impellente necessità di capitali per metter mano a programmi industriali in settori promettenti, da un lato, e coprire buchi non indifferenti, in altri.

Un azionista attento dovrebbe esser pronto a mettere mano al portafoglio e sottoscrivere un aumento di capitale adeguato alle esigenze della società, migliorandone posizione finanziaria, struttura patrimoniale, rating.

Il punto è: l’azionista di maggioranza relativa, lo Stato tramite il MEF con 30.2%, non ha i soldi per dar corso all’aumento; che fare? In termini pratici: salvare il gruppo o salvare il controllo dello stato su Finmeccanica? Perché è evidente che procedere ad un aumento di capitale porterebbe ad una forte diluizione della partecipazione del MEF nel gruppo. Noi riteniamo che venga prima la gallina (Finmeccanica) dell’uovo (il controllo societario).

Affrontato il primo tema, passiamo al secondo tema: con quali regole deve avvenire il passaggio di proprietà di una società?

Riteniamo che l’unica guida certa sia “rispettare il mercato”; ed il mercato si rispetta assicurando condizioni di trattativa aperte ed uguali per tutti, rispetto dei diritti degli azionisti di minoranza e di maggioranza, chiare motivazioni e ragioni di una trattativa. Con l’acquisto dell’84.5%, che somma il 45% del fondo USA First Reserve ed il 39.5% di Finmeccanica (che sinora ne ha posseduto il 55%, e quindi continuerà a detenerne il 15.5%), l’intervento del Fondo Strategico Italiano (braccio finanziario, e non operativo, di CDP) non ci sembra rispettare i criteri appena descritti. Gli azionisti di Finmeccanica non ne ricavano alcun vantaggio diretto; in prospettiva, l’intervento di FSI è sin da ora dichiarato transitorio: nell’accordo sottoscritto si dichiara infatti che “”a fronte della possibilità di aprire l’azionariato di Ansaldo Energia a operatori industriali si indica Doosan (gruppo coreano, n.d.r.) quale interlocutore prioritario con cui Finmeccanica ha intrattenuto approfonditi negoziati strategici e industriali””.

Con questa operazione non si rispetta il mercato, non si difende (a lungo termine) l’italianità, non si assicura un disegno industriale con un partner industriale che conosca mercato, regole di ingaggio, tecnologia. Una mera partita di giro: al fine di ridurre l’indebitamento di Finmeccanica e garantire la continuità di un management che andrebbe gentilmente invitato a cambiare indirizzo.

 

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La strategia di riforma della spesa pubblica: 1992

La strategia di riforma della spesa pubblica dovrebbe puntare essenzialmente su due direttrici: modificazione nella gestione della spesa pubblica corrente per aumentarne l’efficienza in termini di quantità e qualità dei servizi offerti; decentralizzazione nella produzione e nel finanziamento dei servizi, anche con l’introduzione di maggiori elementi di mercato

(cit. Ignazio Musu, “Per una riforma della spesa pubblica e delle istituzioni economiche, Il Mulino, maggio-giugno 1992, p.417)

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Ingressi illegali nell’UE in calo, secondo Frontex

frontexRapporto annuale sul rischio alle frontiere dell’Unione europea (Annual Risk Analysis 2013), pubblicato nell’aprile 2013 da Frontex ( www.frontex.europa.eu), Agenzia dell’Unione europea per le frontiere esterne, era abbastanza positivo ed è interessante riepilogarne i contenuti.

Secondo il Rapporto, il 2012 ha visto una diminuzione del 50% del numero di attraversamenti illegali delle frontiere meridionali dell’Unione rispetto all’anno precedente. In effetti, i flussi conseguenti alle primavere arabe si erano progressivamente ridotti, con un effetto anche di medio periodo.

Il rapporto individua tre corridoi: uno orientale (greco-bulgaro-turco), uno centrale (Libia-Tunisia) e uno occidentale (Spagna-Marocco).  Sulla rotta del Mediterraneo orientale, nel 2012 i flussi di migranti attraverso il corridoio della frontiera greco-turca sono stati sostanzialmente interrotti, in ragione dell’operazione greca denominata “Aspica” (Scudo), con circa 1800 militari aggiuntivi alla frontiera. Gli ingressi in Grecia dalla Turchia, che erano dell’ordine di 2000 persone al giorno, sono scese infatti a una decina alla settimana nel  mese di ottobre 2012.  Sebbene questo drastico calo sia stato in parte compensato da un leggero aumento di ingressi sul corridoio del mar Egeo e al confine turco-bulgaro, il risultato degli interventi è stato efficace. Anche il più netto aumento di ingressi attraverso i Balcani non è stato sufficiente a compensare il calo di ingressi registrato a oriente.

Se il 2011 era stato caratterizzato da forti afflussi provenienti dal corridoio della Libia e della Tunisia a seguito della Primavera araba, gli ingressi erano scesi significativamente alla fine dello stesso anno. Alla fine del 2012 il flusso Tunisia-Libia ammontava ad un totale di sole 10.300 persone.

Infine, sulla rotta del Mediterraneo occidentale dal Nord Africa alla Spagna, i rilevamenti di attraversamento illegale sono diminuiti di quasi un quarto ( -24 %) rispetto al 2011. Il totale degli ingressi, pari a 6.400 unità, seppure in calo rispetto al 2011, risulta superiore alla media degli anni precedenti.

Il rapporto di Frontex si soffermava anche sulle nazionalità delle persone in ingresso illegale. Se la a guerra civile in Siria ha provocato un aumento della presenza dei suoi cittadini, il  gruppo di persone più numeroso che entra illegalmente è quello afghano, anche se il loro numero totale è diminuito notevolmente rispetto all’anno precedente (13.169 contro 22.994 ) .

Per quanto riguarda le domande di asilo nell’UE nel 2012 , gli afghani occupano anche in questo caso il primo posto, anche se gran parte l’aumento complessivo delle domande, pari al 7%, è attribuibile a cittadini siriani. Nell’insieme delle persone che soggiornano illegalmente nell’UE, il gruppo più numeroso è afghano, seguito dal gruppo marocchino.

Enrico Martial

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Sul valore legale dei titoli di studio

Luigi_Einaudi

“La verità essenziale qui affermata è non avere il diploma per sé medesimo alcun valore legale, non essere il suo possesso condizione necessaria per conseguire pubblici e privati uffici, essere la classificazione dei candidati in laureati, diplomati medi superiori, diplomati medi inferiori, diplomati elementari e simiglianti indicativi di casta, propria di società decadenti ed estranea alla verità ed alla realtà; ed essere perciò libero il datore di lavoro, pubblico e privato, di preferire l’uomo vergine di bolli. ”

(Luigi Einaudi, Scuola e libertà)

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Sodo Caustico

Sodo caustico. Le pere del Presidente

Ennio Flaiano (“ La solitudine del satiro”) racconta in modo magistrale una serata al Quirinale, Presidente Luigi Einaudi:

“Molti anni fa, nel terzo o quarto anno del suo mandato presidenziale, fui invitato a cena al palazzo del Quirinale da Luigi Einaudi. Non invitato ad personam – il Presidente non mi conosceva affatto – ma come redattore di una rivista politica e letteraria diretta da Mario Pannunzio. A tavola eravamo in otto, compresi il Presidente e sua moglie. Otto convitati è il massimo per una cena non ufficiale, e la serata si svolse dunque molto piacevolmente, la conversazione toccò vari argomenti (…) Ma eccoci alla frutta. Il maggiordomo recò un enorme vassoio (…) e tra quei frutti, delle pere molto grandi. Luigi Einaudi guardò un po’ sorpreso tanta botanica, poi sospirò: “Io” disse “prenderei una pera, ma sono troppo grandi, c’è nessuno che vuole dividerne una con me?”. Tutti avemmo un attimo di sgomento (…) “Io, Presidente” dissi alzando una mano per farmi vedere, come a scuola. Il Presidente tagliò la pera, il maggiordomo ne mise la metà su un piatto, e me lo posò davanti come se contenesse la metà della testa di Giovanni il Battista. (…) Qui finiscono i miei ricordi sul Presidente Einaudi. Non ebbi più occasione di vederlo, qualche anno dopo saliva alla presidenza un altro e il resto è noto. Cominciava per l’Italia la Repubblica delle pere indivise”.

Accanto alle pere, molte ciliegie che, come noto, “una tira l’altra”.

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Liberiamo!

Sull’italianità dell’industria

Invece la nuova economia italiana nel Nord sorgeva come industria protetta rinnegando ogni senso di dignità. In trent’anni di polemica i nostri liberisti hanno avuto tempo e possibilità di dimostrare con calcoli e cifre tutti i danni economici del protezionismo doganale. Ridiscutere la questione in sede di economia parrebbe un anacronismo.

Gli studi e gli ultimi dati non hanno concluso in nessun punto di vista nuovo, ma si sono limitati a confermare che la vita nazionale contrae, aderendo al protezionismo, un pessimo affare. Ma è ora di affrontare gli argomenti protezionisti nel loro stesso campo prediletto, dimostrando i danni politici del loro sistema, che ha inaugurato in Italia un’epoca di corruzione e di decadenza nei costumi del proletariato e della borghesia.

(Piero Gobetti, Il liberalismo in Italia, 1924)Piero_Gobetti