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Liberiamo!

Perchè su Alitalia è meglio non fare nulla

Perchè su Alitalia è meglio non fare nulla

Bell’intervento sul tema in FARE. Riportiamo volentieri,

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Cianciando ma non troppo

Liberismo e individualismo in eccesso

Come fossero mantra, sentiamo continuamente ripetute frasi che puntano sulle colpe di un modello sociale basato sulle libertà e sui diritti dell’individuo, in particolare su quei diritti che consentono di curare i propri interessi.
Il “particulare” sarebbe questo? Fermamente no.
Dovremmo ribellarci all’idea che il corrente stato disastroso del paese sia effetto dell’eccesso di individualismo e di liberismo.
E’ esattamente il contrario: un eccesso di familismo-corporativo.
Il “particulare” è proprio questo: una dominate cultura tribal-comunitaria-relazionale che contrappone gruppi a gruppi. Devo fare esempi? O posso pensare che di esempi ne viviamo quotidinamente senza necessità che ne elenchi qualcuno anche nel nostro piccolissimo e recentissimo?
Sembrerebbe ideologia liberal-democratica. Forse, ma preferisco pensare che abbia fondamenti razionali, empirici, pragmatici.

  •  La democrazia si basa sull’individuo (una testa-un voto). La Carta dei diritti umani è fondamento preliminare a qualsiasi costituzione democratica sostanziale. Dico sostanziale perché nel nostro paese la democrazia è prevalentemente di facciata, mentre le istituzioni sono occupate da mille caste (non a caso parola tribale). Quindi l’individuo è vittima e non il colpevole. I Diritti Umani , del singolo essere umano, vanno portati alla massima evidenza possibile. I diritti umani sono una trentina di articoli molto corti; suggerisco una lettura veloce con attenzione particolare al soggetto-attore di ogni articolo.
  • Continua automatica la contrapposizione millenaria fra il modello sociale democratico e il modello clan-familistico-corporativo che si esprime, nel nostro linguaggio, in forma di contrapposizione fra interessi dell’individuo e quelli collettivi. Questo concetto è primitivo e da smontare con determinazione.
    Per un democratico la collettività non è il clan in cui si trova precipitato dalla nascita, in forma ereditaria. Non è il clan da cui non potrà mai uscire se non da morto e, nei secoli recenti, solo con il passaporto. Rammento in proposito che le comunità democratiche stanno via via eliminando sia i confini sia i passaporti. Per il democratico la comunità è quella che si sceglie lui stesso. Quella in cui partecipa alla costruzione delle regole di convivenza condivise con i propri simili, e che poi rispetta. Avete presente quelle costituzioni che cominciano con “we the people..” o quella brasiliana “Noi, rappresentanti del popolo brasiliano, riuniti…”, o quella svizzera “ ..omissis premesse … art 1 Il popolo svizzero…”. Avete presente il nostro incipit “L’Italia è una repubblica.. (cos’è l’Italia? Un territorio? Una nazione – per me odioso concetto), ma specialmente … l’Italia è l’attore primario della costituzione?). Scusate la deviazione, ma solo per esemplificare che per gli individui la collettività è un enorme sforzo di volontà, di impegno, di lavoro perché essa funzioni. Per gli individui la comunità è il risultato di uno sforzo proprio, tutt’altro che ereditato. Un sistema da difendere. Altro che egoismo e anarchia sociale.
  • La collettività democratica si regge su un principio economico altrettanto fondamentale che il riconoscimento dell’individuo: la reciprocità dei benefici e dei costi. Fare il bene proprio non è un danno alla comunità. Il danno alla collettività lo fanno i briganti. Chiunque aggiunga valore a sé stesso aggiunge valore anche alla comunità, ma…solo a condizione che non faccia danno agli altri; meglio ancora se fa un pò di bene anche agli altri. Questa è l’essenza della democrazia e l’essenza del mercato. Ogni negoziazione porta beneficio a entrambe le parti. Una cosa difficile da fare. Ma l’alternativa è il gruppo, il clan, la corporazione che non si curano assolutamente del danno che possono portare ad altre tribù, ad altre collettività. Anzi prosperano sul depauperamento degli altri clan. Mi pare sia lo stato in cui ci troviamo noi. I clan sono il cancro della nostra società, non l’individuo. Bisogna smontare l’idea che fare il bene proprio inevitabilmente implichi fare danno agli altri. Questa è un’idea primitiva e antidemocratica. E’ l’idea che i beni vadano redistribuiti, spostando risorse dalle tasche di uno alla tasche dell’altro. Niente valore aggiunto. Il modello democratico invece prevede che ogni pezzo di valore aggiunto vada prima di tutto a gratificazione di chi lo ha generato e in parte alla collettività. Bene per sé e bene per gli altri. Un sistema di merito che gratifica e aumenta il valore per i singoli e per la collettività. Cosa difficile? Certamente. Ma molto più gradevole, nei suoi risultati, che la continua e frustrante rapina reciproca.
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Sodo Caustico

Sodo caustico. Fondazioni bancarie: missione impossibile.

Create per dare stabilità all’azionariato bancario attraverso la divisione fra proprietà e gestione bancaria, le fondazioni bancarie sono 88, di cui 53 possiedono meno del 50% delle azioni delle banche conferitarie, 13 hanno più del 50% delle azioni, 22 non possiedono più azioni. La legge di riordino delle fondazioni bancarie, la c.d. legge Ciampi, imponeva a tutte le fondazioni di scendere sotto il 50% di partecipazione, cosa avvenuta per le principali banche, ma ancora in parte irrealizzata.

Le fondazioni più importanti sono al Nord Ovest: esse rappresentano il 74.7% del patrimonio totale, e le 18 fondazioni più grandi hanno un patrimonio cumulato di 31.000 milioni (dati tratti dal 18esimo rapporto curato dall’Acri).

Al 31.12.2012 il patrimonio cumulato di tutte le fondazioni era 48.183 milioni, cresciuto al tasso annuo del 1.5% dal 2000, rispetto ad una inflazione annua del 2.2%. Il totale degli impieghi (attivo) delle fondazioni è di 51.002 milioni a fine 2012, e le principali voci sono: 20.200 milioni partecipazioni bancarie, 21.000 milioni strumenti finanziari (investimenti).

I proventi incassati dall’universo fondazioni sono stati  1.535,6 milioni nel 2012 (in crescita del 24% sul 2011) di cui 445,4 milioni rappresentati da dividendi distribuiti dalle banche partecipate. Gli oneri di gestione (inclusi costi del personale di 61,3 milioni, per totali 1.026 dipendenti ed una media di 11,6 dipendenti per fondazione) sono 410,7 milioni, pari al 26.7% dei proventi totali. Le spese di gestione degli organi statutari (consigli di indirizzo e di gestione) hanno avuto una crescita costante: pari all’1.5% nel 2005 sui proventi, nel 2012 sono raddoppiate al 3%, con un peso superiore nelle fondazioni piccole (8.1%) e medio-piccole (7.4%) e nel Sud (6.5%).

A fronte di tali proventi,  nel 2012 le fondazioni hanno erogato, nel rispetto dei settori di destinazione ed intervento, 965,8 milioni su 22.204 interventi sul territorio, con una media di erogazione per fondazione di 11 milioni, maggiore nel Nord Ovest (24,3 milioni) e minore al Sud (3,4 milioni); la media dei singoli interventi è stata di 39.000 euro nel 2012. Negli ultimi 10 anni le erogazioni totali sono state 15.600 milioni, e con trend calante negli anni: 1.366 milioni nel 2010, 1.092 nel 2011, con quote importanti nella salute pubblica e arte e beni culturali (ciascun settore conta circa il 30% delle erogazioni).

Nel 2011 le fondazioni hanno ricapitalizzato, complessivamente, le banche conferitarie per 1.270 milioni.

Costose, limitate nella capacità di incidere con interventi seri sul territorio, vista la relativa modesta dimensione dei singoli interventi (39.000 euro), con un patrimonio largamente ancora concentrato nelle partecipazioni bancarie, con una insufficiente diversificazione degli investimenti (ad esclusione di casi come C.R Roma che non ha più investimenti bancari, Compagnia San Paolo col 65% del patrimonio investito fuori dalla banca, Cariplo).

Le 10 fondazioni con maggiore patrimonio sono Cariplo (6.551 milioni), Compagnia San Paolo (5.622 milioni), C.R. Verona e Vicenza (2.654 milioni), C.R. Torino (1.917 milioni), C.R. Padova e Rovigo (1.745 milioni), Roma (1.445 milioni, senza partecipazioni bancarie), C.R. Cuneo (1.330 milioni), C.R. Firenze (1.305 milioni), C.R. Lucca (1.183 milioni), C.R. Genova e Imperia (1.013 milioni). La fondazione più “povera” è quella del Monte di Pietà di Vicenza con 1,7 milioni.

Il patrimonio delle fondazioni è ben investito? In caso di necessità di capitale da parte delle banche conferitarie, gli azionisti fondazioni hanno mezzi sufficienti, e volontà, di sottoscrivere nuovo capitale? Ne hanno la possibilità giuridica e la convenienza? Che cosa accade se le fondazioni non incassano dividendi sufficienti a sostenere i rispettivi piani di erogazione sul territorio? Riducendo la capacità di erogazione sul territorio, viene ridotta la loro missione di sussidiarietà sul territorio e relativo peso nell’ambito socio-politico locale.

Il patrimonio delle fondazioni è generalmente investito in modo sotto-ottimale, con una componente derivante da investimenti finanziari (tendenzialmente “sicuri”) che sono diminuiti dal 75.6% del totale dei proventi al 64.4% del 2010, 46.3% nel 2011, per risalire al71% nel 2012 (anche a causa della riduzione dei dividendi incassati).

Le fondazioni potrebbero essere chiamate a sottoscrivere nuovo capitale delle banche conferitarie; esse peraltro hanno una limitata “capacità di investimento”  e si trovano dinanzi a possibili aumenti di capitale a prezzi spesso molto inferiori a quelli di carico (in bilancio) che ne ridurrebbero il peso azionario, con relativa diluizione dell’azionariato.

 Le 7 principali banche (IntesaSanPaolo, Unicredit, BPM, MPS, Bper, Pop. Sondrio, Ubi) hanno portato a perdita 34.319 milioni totali fra il 2011 ed il 2012; dopo tali interventi “monstre” i crediti deteriorati sul patrimonio delle banche sono ancora significativi (MPS 3 volte il patrimonio); le 9 banche principali hanno avuto un risultato corrente cumulato negativo di 2.793 milioni nel 2012, con un patrimonio finale di 160.578 milioni su 1.397.779 milioni di crediti (pari all’11.5% dei crediti); ma ulteriori perdite potrebbero realizzarsi: le rettifiche fatte ai crediti anomali coprono il 37.9% dei crediti erogati e quelle fatte sui crediti in sofferenza (dove le aspettative di recupero sono basse) coprono il 54.1%.; i crediti in sofferenza sono, a livello di sistema bancario italiano, il 13% dei crediti, circa 181.700 milioni;  se si volesse provvedere ad una integrale copertura delle sofferenze bancarie con capitale proprio (secondo ragionevoli e corretti criteri, cui è peraltro possibile allontanarsi per decisione degli amministratori),  si dovrebbe metter mano alla raccolta di nuovo capitale in misura pari al 45.9% dei 181.700 milioni di crediti in sofferenza: ciò significherebbe un “deficit” di capitale di 83.500 milioni, a livello di sistema bancario, per riportare lo stesso ad una adeguato rapporto patrimonio/crediti erogati totali. Le fondazioni bancarie potrebbero coprire ¼ di tale fabbisogno, nel caso liquidassero tutti gli investimenti in strumenti ed investimenti finanziari (ipotesi peraltro irrealistica).

Le fondazioni non hanno mezzi adeguati per sostenere le banche conferitarie partecipate, anche se lo volessero. Le banche hanno necessità di capitale, almeno per una parte considerevole dell’ammontare indicato (83.500 milioni) e potranno trovarlo solo attraverso operazioni sul mercato con raccolta di nuovo capitale (cosa che porterà le fondazioni in posizione minoritaria ed a perdere il controllo).

La missione di mantenere voce in capitolo per le fondazioni ci sembra una “missione impossibile”. Nel modo meno glorioso, le banche troveranno nuovi assetti societari, patrimoniali, di controllo.