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Dalla sanità ai trasporti: meglio tornare alle Province

Innocenzo Cipolletta interviene per sottolineare le incongruenze di una struttura pseudo-federale nata male e che ha mostrato tutti i suoi limiti in occasione della crisi Covid19.

N.d.R. Ai tempi dell’abolizione (?) delle Province Liberiamo aveva contribuito organizzando un DIBATTITO pubblico, moderato da Marco Ardemagni.

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dal Sole24Ore del 19/05/2020 (Diritti Riservati)

Nei prossimi giorni si potrà andare da una regione all’altra se le condizioni sanitarie lo permetteranno. Le regioni hanno voluto regole comuni da parte del Governo, per quest’ultima fase della quarantena per la Covid-19, ma poi loro potranno introdurre differenziazioni a seconda delle situazioni sanitarie locali. Sembra ragionevole: non spetta al Governo centrale distinguere luogo a luogo. Resta però da capire una cosa: ma le regioni sono una entità territoriale idonea per definire queste riaperture e, più in generale, per le competenze che sono state attribuite loro? La risposta non è positiva.

Prendiamo il caso dei passaggi da regione a regione. Molte regioni hanno parti del territorio che non gravitano attorno al proprio capoluogo, bensì sono attratte da altri capoluoghi o altre città in altre regioni. Di esempi ce ne sono tanti. Novara e Biella (Piemonte) gravitano più su Milano (Lombardia) che su Torino. Verona (Veneto) ha maggiori legami con Milano che con Venezia, mentre Mantova ha maggiori attrazioni da e per il Veneto. La Liguria è terra di seconde case per lombardi e piemontesi (oltre che di tanti altri). Lo stesso avviene per le coste romagnole. Terni e Grosseto sono più attratti dal Lazio che da Umbria e Toscana. Potenza guarda Napoli mentre Matera guarda Bari e si potrebbe continuare. In queste condizioni, ha un senso credere che le regioni siano i soggetti più adatti per decidere gli spostamenti?

Ma anche per le due altre competenze (sanità e trasporti) che sono state date loro, le regioni appaiono quantomeno inadeguate. Per la sanità, di cui le regioni hanno essenzialmente compiti di organizzazione, la dimensione regionale appare poco utile per i cittadini. L’organizzazione di ospedali, laboratori e sistemi di cura per un cittadino deve avere una dimensione territoriale facilmente raggiungibile dallo stesso. Difficilmente un milanese si rivolge a un ospedale di Cremona o di Mantova e viceversa. La giusta dimensione appare essere quella provinciale mentre la definizione degli standard di cura non può che essere nazionale. La regione appare un’entità territoriale troppo grande per organizzare la sanità e troppo piccola per definire gli standard. Per i trasporti vale quanto detto con riferimento agli spostamenti tra regioni: la dimensione regionale raramente copre le vere esigenze di trasporto dei cittadini. I trasporti dovrebbero essere organizzati per grandi (e meno grandi) aree metropolitane e per assi nazionali. La dimensione regionale coglie solo esigenze limitate.

In queste condizioni, c’è veramente da domandarsi se le regioni abbiano un senso come entità amministrative e se occorra dare loro altre competenze. Il rischio è quello di avere tanti presidenti regionali rissosi (come si è visto in questa emergenza) perché detentori di un mandato elettorale che non riescono ad assolvere, essendo loro naturalmente nell’incapacità a risolvere i problemi locali.

Forse sarebbe meglio tornare alle province e fare delle regioni un consesso di secondo grado, così come di fatto avviene nella regione del Trentino Alto Adige .

Innocenzo Cipolletta – icipoll@tin.it

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UNIONE A RISCHIO: il futuro dell’Europa viene deciso adesso

Di Sergio Fabbrini, commentatore acuto e con visione di lungo periodo, avevamo rilanciato altri interventi tratti dalle pagine del Sole24Ore. In piena emergenza Covid-19 questo è un contributo importante, schematico ed essenziale, per sfuggire alla retorica bipartisan della comunicazione drogata da interessi cialtroni localistici di breve periodo.

Riportiamo INTEGRALMENTE di seguito.

Stiamo attraversando la più profonda crisi europea da quando è partito il progetto di integrazione. Le divisioni emerse nel Consiglio europeo di giovedì scorso non hanno precedenti nella storia dell’Unione europea (Ue). Di fronte alla devastazione sanitaria del continente, i 27 capi di governo dei Paesi dell’Ue hanno deciso di non decidere. Una scelta drammatica, ma inevitabile, vista la divisione tra i Paesi del nord (guidati dai Paesi Bassi, con la Germania al suo interno) e i Paesi del sud (guidati dall’Italia e dalla Spagna, con la Francia al suo interno).

Ha scritto Yuval Noah Harari che, di fronte alla sfida del Covid-19, «le decisioni che i cittadini e i governi prenderanno nelle prossime settimane influenzeranno probabilmente il mondo per anni a venire». Vale dunque la pena di capire quali siano le ragioni dello scontro in atto in Europa.

Cominciamo dai Paesi del nord. Per loro, anche in presenza di crisi simmetriche (come quella del Covid-19), ogni Paese deve fare riferimento alle proprie risorse (utilizzabili in deficit, con la sospensione del Patto di stabilità). Se un Paese abbisogna di ulteriore aiuto finanziario, allora vi è il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), un trattato intergovernativo esterno al Trattato sul funzionamento dell’Ue, che può fornire quell’aiuto (a singoli Paesi e a precise condizioni). Il Paese richiedente aiuto dovrà dimostrare che il suo debito accresciuto sarà comunque sostenibile, come ha ricordato il ministro delle finanze olandese Wopke Hoekstra. Se non fosse così, l’incremento debitorio verrebbe punito dai mercati finanziari, con il relativo incremento dello spread sui titoli pubblici del Paese in questione.Continua a pagina 12

Quindi, per i leader dei Paesi del nord, l’Italia dovrebbe rivolgersi al Mes per ottenere i fondi con cui combattere il Covid-19 e le sue conseguenze, eventualmente negoziando condizioni meno vincolanti, ma accettandone pienamente la logica intergovernativa. Per quei leader, l’Ue è una confederazione istituzionalizzata, basata sul principio che ogni stato è sovrano (anche di fare una competizione fiscale sleale nei confronti degli altri stati, come fa L’Aia). Non può esserci quindi una solidarietà europea, al di là della retorica dei trattati. Sorprendente (se si considera la sua storia) che tale posizione sia fatta propria dall’attuale leadership tedesca. La logica confederale è magnificata dalla centralità del Consiglio europeo, ritenuto essere l’unica arena legittima per prendere decisioni collegiali (o per decidere di non prenderle, come ha spiegato Luuk van Middelaar). Il Consiglio europeo decide all’unanimità e se quest’ultima non si trova, come giovedì scorso, allora è meglio rinviare la decisione (nonostante la casa stia prendendo fuoco). Per questi Paesi non vi è un interesse europeo distinto dalla somma dei singoli interessi nazionali. Per i Paesi del nord, dunque, il Covid-19 non è sufficiente per mettere in discussione lo status quo.

Perché mai l’Italia dovrebbe accettare tale visione, sottoponendosi, in una situazione drammatica, alla condizionalità del Mes?

Vediamo ora i Paesi del sud.

Per loro, siccome il Covid-19 ha messo in ginocchio l’intera Europa, occorre creare risorse europee, non solamente nazionali, per affrontarlo. Risorse finalizzate a combattere la guerra sanitaria, e le sue conseguenze economiche, non già a finanziare la spesa corrente dei Paesi colpiti. È ingiustificabile che l’Italia continui ad avere il secondo debito pubblico dell’Eurozona, è ingiustificabile che l’attuale maggioranza governativa non abbia avuto il coraggio di eliminare spese come Quota 100, tuttavia ciò non ha nulla a che fare con la crisi generata dal Covid-19. Anche con un debito pubblico inferiore, l’Italia non avrebbe avuto le risorse per gestire le conseguenze economiche e sanitarie di una crisi che ha «proporzioni potenzialmente bibliche» (per dirla con Mario Draghi). Per i leader di questi Paesi, esiste dunque un interesse europeo (alla salute, alla ripresa) distinto da quello dei singoli stati. Di qui, la necessità di utilizzare strumenti finanziari sovranazionali e non intergovernativi. Come i titoli di debito europeo, emessi da istituzioni europee e garantiti dalla Banca centrale europea (istituzione sovranazionale), attraverso il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), da essa appena varato. Con tale programma, ha scritto Jacob Funk Kirkegaard, «la Banca centrale europea ha portato il continente vicino ad un’unità politica e finanziaria inimmaginabile nel passato». Ciò rappresenterebbe un passo verso la creazione di una capacità fiscale dell’Eurozona (da non confondere con l’attuale fiscal regulation o surveillance).

Dopo tutto, come si fa ad andare avanti con un’unica politica monetaria e 19 politiche fiscali nazionali ? Nelle unioni di stati divenute federali (come gli Usa e la Svizzera), quella capacità fiscale è necessariamente limitata e condizionata. Gli Usa l’hanno introdotta nella costituzione del 1787 (Art. I, Sezione 8), proprio per rispondere ad una crisi che aveva messo in discussione la precedente confederazione. Negli Usa, le tasse dirette e indirette sono sottoposte a tali vincoli che la spesa federale è stata al di sotto del 5 per cento del Pil per quasi un secolo e mezzo (con l’eccezione della Guerra Civile del 1861-65 quando ha raggiunto il 15 per cento). Con il XVI emendamento costituzionale del 1913 (che ha consentito la tassazione federale dei redditi) si è registrata una crescita significativa della spesa federale, anche come effetto della grande crisi del 1929 e della proiezione militare globale del Paese. Ciò nonostante, la spesa federale post-bellica ha continuato ad essere la metà di quella degli stati nazionali europei (nel 2018, la spesa pubblica totale era al 38 per cento del Pil, poco più della metà federale e il resto statale e locale). Una capacità fiscale sovranazionale non sottrae sovranità fiscale agli stati, ma serve (per dirla con Alexander Hamilton) a rispondere con risorse comuni a problemi comuni. È questa prospettiva sovranazionale che l’Italia deve difendere. Insomma, nello scontro in atto non ci sono buoni e cattivi, ma visioni diverse dell’Europa. È interesse di tutti che si trovi un compromesso, è interesse dell’Italia (come ha detto ieri il premier a questo giornale) che esso non coincida con lo status quo. Situazioni eccezionali richiedono risposte eccezionali. Si è inaugurata davvero la Conferenza sul futuro dell’Europa.

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RISPARMIO TRADITO – NUOVO EPISODIO!

Ancora una volta peschiamo dal Sole 24 Ore, non dalle prime pagine forse per non tirare l’ennesimo fendente alla perfida Albione in difficoltà per la Brexit. Sembra veramente che la capacità di apprendere sia sparita dalla cultura protestante.

Sulle banche inglesi una bomba da 50 miliardiNel Regno Unito scoppia lo scandalo dei PPI, i rimborsi previdenziali. Nuova tegola su Lloyds, Barclays, RBS e Santander: lo spettro ricapitalizzazioni

L’ennesima tempesta investe il sofferente mondo delle banche inglesi. Una nuova mina da 50 miliardi di sterline che si nasconde dietro l’innocente sigla PPI, assicurazioni tossiche, manda al tappeto bilanci già traballanti e getta nel panico il mercato. I PPI sono piani assicurativi personali che coprono spese previdenziali dei lavoratori (per esempio giorni di malattia non pagati dalle aziende).

Ma sui PPI è scoppiato l’ennesimo scandalo della finanza che ora rischia di far inabissare ancor di più le banche, il malato grave dell’economia inglese (e non solo). Perché molti istituti hanno approfittato dei PPI per piazzare ai clienti polizze superflue (per esempio per coprire anche elettrodomestici). La portata della tegola abbattutasi è gigantesca: i PPI valgono due terzi dei famigerati Sub-Prime, i mutui spazzatura dell’America che fecero scoppiare la grande crisi del 2008-2009. Per tutto agosto la metropolitana di Londra è stata tappezzata di pubblicità della FCA, la Consob inglese, che invitavano la gente a richiedere rimborsi per la truffa dei PPI, che scadevano proprio alla fine del mese. Il viso di un deforme Arnold Schwarzenegger-Terminator campeggiava ovunque nei cartelloni: il martellamento ha funzionato perché il 29 agosto le banche sono state sommerse da richieste di risarcimenti. L’onda è montata anche per la spinta di promotori finanziari che hanno consigliato a tutti i clienti di depositare una domanda.

Ora però le banche, ingolfate da richieste legittime e da altre per presunta truffa, potrebbero trovarsi a dover pagare molto più di quanto si aspettavano. Una notizia certo non buona in vista dei bilanci trimestrali che verranno annunciati a fine mese. Senza contare che il conto potenziale da 50 miliardi rischia di essere spesato con nuovi aumenti di capitale, ossia ricadrà sulle tasche degli azionisti delle banche.

Le agenzie di rating, Standard&Poor’s per prima, hanno già lanciato l’allarme sulla necessità di rimpinguare il capitale. La grana dei PPI rischia di far peggiorare i già logori rapporti con gli investitori, perché se saranno costrette a ulteriori ricapitalizzazioni, saranno sacrificati i dividendi. Il bubbone PPI è scoppiato per primo in LLoyds Bank e da lì è partito il contagio: la banca dovrà accantonare 1,8 miliardi di extra rimborsi cifra che le fa vincere il primo posto del podio di banca più colpita dallo scandalo PPI, con un costo totale che raggiunge i 23 miliardi, una somma in grado di abbattere a che la più solida delle banche. Lloyds aveva già sborsato la stratosferica cifra di 21 miliardi per le polizze tossiche e ora dovrà aggiungere altri 2 miliardi, dopo ave ricevuto circa 600mila richieste a settimane in agosto. Molte richieste verranno probabilmente respinte, perché non hanno titolo, ma intanto di fronte al rischio potenziale, Lloyds ha dovuto congelare il suo piano di buy back da 1,7 miliardi. Una somma analoga, ma un poco più bassa (1,6 miliardi), è stata messa a bilancio anche da Barclays, la più grande banca inglese. Il parametro del Cet 1 (Common Equity Tier), primo scalino della solidità di una banca, scenderà per effetto dell’esborso imprevisto, al 13%. Gli analisti di S&P si attendono un peggioramento dei ratio patrimoniali di tutte le banche coinvolte da qui ai prossimi 18 mesi.

Sono incappate nella trappola PPI anche Virgin Money, la banca del magnate Richard Branson, e il colosso RBS, Royal Bank of Scotland (900 milioni). La gamba bancaria del baronetto che spazia dalle palestre ai viaggi aerei, dovrà spesare un costo da 300 milioni, poco rispetto alle altre banche, ma che farà finire Virgin coi conti in rosso a fine anno. Ultima entrata nella “Lista Nera” la banca spagnola Santander, molto forte nel Regno Unito dove ha rilevato la storica banca inglese Abbey National: l’istituto iberico ha già accantonato 1,6 miliardi ma potrebbe dover incrementare l’importo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA – Simone Filippetti

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La gravità ci libera

Riprendiamo un articolo di Richard Panek pubblicato in tutto il mondo e lo traduciamo per voi con Google Translate (SENZA intervenire ulteriormente). I motivi sono due: dimostrare l’impressionante qualità che hanno raggiunto i traduttori automatici e riflettere sul fatto che ogni cosa va contestualizzata e ripensata senza eccessivi pregiudizi. Divertitevi e non spaventatevi per l’argomento.

PS: C’è una parola difficile con sembra non tradotta ma probabilmente non esiste altro modo di farlo. Se qualcuno lo sa ce lo dica. ALtrimenti deliziatevi con la teoria di Cabibbo.

Non sappiamo cos’è la gravità.
Dillo alla persona media e la risposta che probabilmente otterrai sarà una versione di: “Di cosa stai parlando? La gravità è la forza di attrazione che fa precipitare le cose. “Ma dillo a un fisico e la risposta che otterrai è” Esatto “.
Lo so, perché quelle sono le due risposte che ho ricevuto negli ultimi anni, da quando ho capito che nessuno sa cosa sia la gravità e che quasi nessuno sa che nessuno sa cos’è la gravità. L’eccezione sono i fisici: sanno che nessuno sa cos’è la gravità, perché sanno che non sanno cos’è la gravità.
L’ipotesi che lo facciano – quello che facciamo tutti – è comprensibile. A meno che tu non pensi seriamente alla gravità, il tuo cervello fa quello che si è evoluto: associa la gravità alla tua relazione con il terreno sotto i tuoi piedi. Non devi pensare alla gravità perché la conosci nelle ossa. Ma se ci pensate, potete iniziare a rendervi conto che ciò che “sapete” è, in effetti, una serie di illusioni. Questi fraintendimenti rendono l’universo più navigabile – fisicamente e psicologicamente – ma lo lasciano anche meno misterioso.
Considera le ipotesi alla base di quella risposta comune:
“La gravità è la forza di attrazione che fa cadere le cose verso il basso.”
Bene, sì – a seconda di cosa intendiamo per “forza”. Possiamo dire che la gravitazione è una delle quattro forze fondamentali, ma è così anomalo che la parola “forza” diventa quasi insignificante. La forte forza nucleare (che mantiene intatti i nuclei atomici) è circa 100 volte più forte della forza elettromagnetica (che crea lo spettro luminoso), che a sua volta è fino a 10.000 volte più forte della debole forza nucleare (che facilita le interazioni subatomiche responsabili di decadimento radioattivo). Tre forze, tutte entro sei ordini di grandezza l’uno dall’altro. Poi arriva la gravitazione. È circa un milione di miliardi di miliardi di volte più debole del debole nucleare.
Per mettere in prospettiva tale discrepanza, puoi provare questo esperimento a casa. Posizionare una graffetta su un tavolo. Rimane, immobile, ancorato al suo punto dalla sua interazione gravitazionale con l’intero pianeta sottostante. La massa terrestre è di 6.583.003.100.000.000.000.000 di tonnellate. La massa di una graffetta è di 4/100 di oncia. Ora prendi un magnete da frigorifero e bacchetta sopra la graffetta. Presto! Hai contrastato la “forza” gravitazionale di tutta la Terra con un gesto della tua mano.
Ancora più snervante per i fisici è che la gravitazione è l’unica forza che non ha una soluzione quantistica, una teoria che spiega la forza in termini di particelle subatomiche. Il nucleare forte ha la cromodinamica quantistica, l’elettromagnetismo ha l’elettrodinamica quantistica, il nucleare debole ha la flavordinamica quantistica. La gravitazione ha bupkisdinamica quantistica. (La scoperta del gravitone – un’ipotetica particella che media la natura per conto della gravità nello stesso modo in cui il gluone fa per il nucleare forte, il fotone fa per l’elettromagnetismo, e i bosoni W e Z fanno per il nucleare debole – farebbe aiuto. Ma se esiste, è sfuggito al rilevamento con un’astuzia senza pari negli esperimenti quantistici.)
Quindi, estraiamo la “forza” dalla nostra risposta. In quel caso: “La gravità è l’attrazione che fa cadere le cose verso il basso”.
Bene, sì – a seconda di cosa intendiamo per “attrazione”. Due corpi di massa in realtà non esercitano uno strattone misterioso l’uno sull’altro. Lo stesso Newton cercò di evitare la parola “attrazione” proprio per questo motivo. Tutto (!) quello che stava cercando di fare era trovare la matematica per descrivere i movimenti sia quaggiù sulla Terra che lassù tra i pianeti (di cui la Terra, grazie a Copernico, Keplero e Galileo, era uno). Tuttavia, era impotente come una graffetta una volta che l’idea di attrazione a distanza elettrizzava il pubblico.
Quindi: “La gravità è ciò che fa cadere le cose verso il basso.”
Bene, sì, a seconda di cosa intendiamo per “verso il basso”. Il percorso sembra dritto solo perché sei fermo rispetto alla Terra. Come ha capito Galileo, se si fa cadere una roccia dall’albero di una nave che viaggia su un fiume, la sua traiettoria sembrerà essere un angolo rispetto a un osservatore sulla riva. Allo stesso modo, per qualcuno al di fuori della Terra che sta osservando una roccia che cade sul nostro pianeta che gira, il percorso sembrerebbe essere inclinato. Ma la Terra sta anche orbitando attorno al Sole, quindi quell’angolo sarebbe effettivamente in picchiata, creando l’apparenza di una curva. E poiché il Sole sta orbitando attorno al centro della galassia, quella curva sarebbe una curva molto lunga. E la galassia si sta muovendo verso altre galassie, l’universo si sta espandendo e l’espansione sta accelerando: per quanto tempo e si deforma la traiettoria della roccia dipende interamente da dove ti trovi in ​​relazione ad essa.
Quindi: “La gravità è ciò che fa cadere le cose”.
Bene, sì – a seconda di cosa intendiamo per “caduta”. Possiamo altrettanto facilmente argomentare – come fece Einstein, espandendosi sul relativismo nave / costa di Galileo – che la roccia non sta cadendo verso la Terra ma che la Terra è salendo verso la roccia.
Quindi: “La gravità è…”
Bene, sì – a seconda di cosa intendiamo per “è”. Sappiamo cosa fa la gravità, nel senso che possiamo misurare matematicamente e prevederne gli effetti. Potremmo anticipare cosa succede quando due buchi neri si scontrano o quando lasciamo andare una roccia. Ma non sappiamo come fa quello che fa. Sappiamo quali sono i suoi effetti e possiamo dare il nome di “gravità” alla causa di quegli effetti, ma non conosciamo la causa di quella causa.
Non che ai cosmologi piaccia particolarmente. Nella scienza, sapere ciò che non sai è un buon inizio. In questo caso, ha portato gli scienziati a credere che trovare una soluzione quantistica alla gravità sia una chiave – forse la chiave – per comprendere l’universo al livello più fondamentale. Fino ad allora, lavoreranno con ciò che sanno, indipendentemente da ciò che ogni osso nei loro corpi dice loro:
La gravità non è la forza di attrazione che fa cadere le cose verso il basso.

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LIBRA, la privacy e la promessa di servizi finanziari a basso costo

Riportiamo un interessante articolo dal Sole24Ore, di Franco Debenedetti che “spiega” il senso dell’iniziativa di Facebook sulla criptomoneta LIBRA. Non tutto è oro ciò che luccica, ma non è nemmeno diabolico.

Le molte e varie critiche che suscita il progetto Libra hanno tutte una preoccupazione in comune: che i dati sui movimenti finanziari possano essere uniti ai dati che già raccolgono i Big five – Apple, Alphabet (Google), Microsoft, Facebook e Amazon – consentendo una profilatura ancora più completa degli utenti. Una preoccupazione tanto legittima da poter essere, paradossalmente, ignorata: infatti se i proponenti non riusciranno a fornire garanzia che questo non accadrà, il progetto non riuscirà a decollare, perlomeno nei Paesi sviluppati. I cittadini hanno dovuto tollerare che il fisco ricostruisca la totalità dei loro movimenti di danaro, mai accetterebbero un grande fratello, né pubblico né privato. Né, c’è da pensarlo, lo accetterebbero le 28 società finanziarie che già sono, e quelle che saranno, soci del progetto alla pari di Facebook, prime fra tutte le società che già trasferiscono danaro.

Visa o Paypal esistono perché diamo per scontato che i nostri dati rimangano privati: se si insinuasse il dubbio che non è più così, perderebbero l’intero valore del loro business. Tutte le operazioni saranno crittografate, probabilmente usando un sistema blockchain, ma reso meno costoso e più veloce di quello che è usato per i Bitcoin. Per evitare gli usi criminali possibili con i Bitcoin la titolarità dei conti dovrà essere in qualche modo assicurata. (E poi delle due l’una: non è possibile essere incolpati di non garantire la privacy e di offrire uno schermo ai delinquenti). È in senso tecnico, nel senso che i dati sono crittografati, che Libra è stata chiamata criptocurrency. Una scelta non proprio felice, un nome diverso avrebbe evitato il fiorire di equivoci.

È dunque plausibile fare l’ipotesi di lavoro che il progetto contenga adeguate garanzie di protezione della privacy. E questo consente di fare un passo avanti e cercar di capire come funziona il meccanismo; incominciando da quello che potrebbe succedere nelle nostre economie. Libra è una valuta sintetica, composta da euro, dollaro, sterlina, yen: in questo modo le oscillazioni di valore verrebbero smorzate e la valuta si meriterebbe il titolo di stablecoin (sarebbe interessante sapere che cosa è previsto fare in caso di squilibri importanti). Ne deriva che necessariamente la politica monetaria continuerà a essere fatta dalle banche di emissione. Libra Association, la società che emette Libra, non farà prestiti, sarà come una naked bank, con asset liability e sempre in pareggio.

Libra sarà convertibile nelle valute di cui è costituita, ma euro, dollaro, sterlina ecc. continueranno a essere le sole monete di corso legale nei rispettivi Paesi. Se qualche bar vorrà accettare 0,986 Libre invece dell’euro per un espresso, libero di farlo, ma si fatica a vederne il vantaggio. Se invece si trattasse di un vestito di Prada, immagino che sarà possibile pagarlo con lo smartphone addebitando (e Prada vedendosi accreditato) l’importo su conti su Libra Association se entrambi ne avremo aperto uno: e lo faremo solo se il costo sarà inferiore a quello che paghiamo oggi tra carta di credito e banche. Farlo è perfettamente legale, basta non dimenticarsi di metterlo nel riquadro RW della dichiarazione dei redditi, e calcolare l’eventuale profitto finanziario. Se a comperare il vestito di Prada in Galleria è stata la sig.ra Meyer di Hannover, il movimento di danaro avviene attraverso Bankitalia e Bundesbank, e viene annotato nel Target-2, così consentendo di tenere il conto della bilancia commerciale, tra i due Paesi: sembra complicato, in realtà non lo è più del roaming di una telefonata internazionale, il cui costo è stato alla fine eliminato, dato che corrispondeva solo a una rendita per le compagnie telefoniche.

Siamo talmente abituati a trasferire informazioni a costo marginale praticamente nullo, che lo prendiamo come un dato di natura. Trasferire danaro non è intrinsecamente più complicato; certo che non basta digitalizzare le singole operazioni, ma bisogna reinventare il meccanismo. Questo è ciò che vuol fare Libra. Inutile opporsi: siccome è possibile e vantaggioso, qualcuno prima o poi lo farà. Meglio ingegnarsi a mettere le regole per evitare i possibili rischi.

Si è ragionato su come può funzionare da noi, perché è più facile da immaginare: ma è la parte di gran lunga meno importante. Ci sono le rimesse, trasferite da banche, poste ma soprattutto da money transfer: come scrivono Roberto Galullo, Angelo Mincuzzi e Luca Tremolada sul Sole 24 Ore del 24 luglio, la Banca mondiale calcola che nel 2018 le rimesse sono state pari a 689 miliardi di dollari, di cui 529 miliardi in Paesi a basso e medio reddito. Per loro, nel 2020 diventeranno la prima fonte di finanziamento esterno. Il costo medio per il trasferimento è del 7,1%, con punte, nell’Africa subsahariana, del 9,4 per cento. Il costo delle commissioni è valutato in 25 miliardi di dollari, ma il dato è certamente sottostimato, e in crescita con l’allargamento dei fenomeni migratori. L’obiettivo è ridurlo a 3 miliardi di dollari entro il 2030. Eliminare questa rendita (che a volte sconfina nell’estorsione) è un modo più diretto, capillare, efficace di altre forme di aiuto ai Paesi in via di sviluppo. Sarà la criptocurrency a eliminare la cleptocurrency?

Ma questa è solo una parte della storia che vuole scrivere Libra. Nel mondo ci sono 1,7 miliardi di persone, il 31% del totale, che non godono di servizi bancari (1,5 miliardi detraendo i cinesi che non possono accedere a Facebook e all’internet “occidentale”). Farsi un conto in Libra non dovrebbe essere tecnicamente più complicato che farsi un account su Facebook. I miliardi di utenti di Facebook vengono citati come spauracchio per incutere timore sulla potenziale dimensione planetaria della diffusione di Libra e quindi sul potere nelle mani del gruppo che ne finanzierà l’emissione: ma si ignora la possibilità di accedere a basso costo a servizi finanziari efficienti che viene ora offerta a una significativa parte di quelli di cui Facebook ha soddisfatto il desiderio di connettività. Si ignora il nuovo enorme passo avanti che viene reso possibile anche a quelli di loro che la globalizzazione ha già fatto uscire dalla miseria.

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Il ritorno dell’UOMO FORTE

Robert Kagan riaccende il dibattito a partire da un suo profetico e controverso saggio breve, che alleghiamo al nostro intervento (Copyright Kagan & Washington Post).

Il tema è la reazione delle democrazie liberali al riproporsi di una visione dirigista e populista dei rapporti interni ed internazionali.

E la risposta non è scontata, come non è scontato, in positivo e in negativo, l’impatto su ambiti che sembrano non direttamente collegati alla sfera politica istituzionale: ambiente,  diritti, percezione della realtà, tecnologia.

Il saggio è in inglese, ma è talmente interessante da spingere a fare un po’ di fatica per comprenderlo a fondo.

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SEI SICURO DI ESSERE UN POPULISTA? Test individuale dello Sfascio

RICEVIAMO QUESTA LETTERA DI ROBERTO, UNO DEGLI ISCRITTI STORICI DI LIBERIAMO, CHE CI RACCONTA IN MODO SERIO MA NON NOIOSO IL SUO PERSONALE PUNTO DI VISTA DA LIBERALE SULLA SITUAZIONE CHE STIAMO VIVENDO.

 

di Roberto Pasino.

 

Scrivo volentieri sul Blog perché credo realmente si stia insediando un nuovo regime che come tale rischia di portarci a un nuovo totalitarismo. Con molta probabilità il vero populista non arriverà a leggere questo articolo perché animato da una propria verità assoluta che nasce dalla poca competenza, ma lo invito a tener duro perché alla fine della lettura potrebbe in lui radicarsi almeno il dubbio che lo sfascio rappresenti un reale vantaggio.

Il test parte da un dato certo: il populismo sta crescendo e questa crescita si potrebbe espandere anche in Europa. Noi siamo il terzo paese nell’area europea ad avere un governo populista oltre l’Ungheria e la Grecia, dove non è ben identificabile il reale collocamento destra o sinistra degli schieramenti. Il vero politico populista non ragiona su un obiettivo e di conseguenza una strategia basata su un credo politico, ma cavalca la cronaca, muovendosi di volta in volta su argomenti sensibili alla massa di persone.

Prendiamo l’Italia come esempio, ed analizzando la politica che annunciano, possiamo dire che la Lega è di destra trattando gli argomenti di sicurezza e immigrazione ed i 5 stelle di sinistra basando i propri proclami sulla ridistribuzione  sociale del reddito. Queste linee politiche hanno trovato forza perché facilmente spendibili all’uomo comune; cosa c’è di meglio dell’arrivare al bar parlando di invasione da parte dello straniero oppure di sicurezza per qualche torto subito, oppure ancora del ristoro economico attraverso l’assistenza sociale? Come si può facilmente capire, il populismo fa sentire protagoniste le persone anche di semplice estrazione sociale rispetto a temi di importanza maggiore ma più complessi come quelli economici.

Il populismo quindi si basa su uno schema identitario che nel nostro paese come detto abbraccia a destra la religione sventolando il vangelo in piazza, la famiglia e a sinistra il globalismo e l’establishment da combattere e su questi punti cardine si prendono i voti rendendo poi difficile una volta al governo poter essere a propria volta rappresentanti del sistema.

I problemi nascono perché con la demagogia e la paura è facile ottenere il voto rendendo schiavi i partiti che per mantenere le promesse devono fare scelte che in genere vanno proprio contro il popolo, mettendo in campo politiche dannose al paese, come per esempio quella di ristatalizzare Alitalia per puro principio.

Lo schema facile del populismo con cui si prendono i voti:

  • Spingere il popolo contro l’élite spesso utilizzando “fake news” sostenendo che l’establishment ha fatto politiche egoistiche per difendere un proprio interesse.
  • Insofferenza per le procedure costituzionali; insofferenza verso i pesi e contrappesi del sistema democratico come verso i magistrati o il Presidente della Repubblica, adducendo come unico sistema democratico quello dato dalla democrazia rappresentativa e diretta.
  • Il rifiuto del mercato e della globalizzazione combattendo la presunta élite che ha creato per un proprio interesse la globalità chiedendo a questo punto più Stato

Avendo preso i voti diventa fattuale che il ruolo di opposizione diventi obbligatoriamente quello di governo, ed è qui che nasce il cortocircuito perché manca completamente una visione generale a breve e a lungo termine trovandosi per ogni scelta ad un bivio su ciò che è stato promesso e ciò che potrebbe essere necessario al paese. Oggi ci troviamo indebitati da 53 MLD di euro per sostenere promesse elettorali che sono state portate avanti con l’unico scopo di non fare retromarcia su idee irrazionali. Pensiamo agli “ossimori” che fanno parte delle scelte demagogiche che rappresentano le nuove leggi o proposte di legge a partire dal lavoro dove da una parte spingono su una crescita derivante da più occupazione e poi chiudono i centri commerciali la domenica, parlare di sviluppo del paese ma poi mettersi di “traverso” su TAP, Trivelle etc., oppure ancora non volere la TAV adducendo che nei costi lo stato perderebbe i soldi delle accise sui carburanti quando da sempre sei stato un ecologista.

La fortuna di tutto questo sta nel fatto che il voto identitario dei populisti è piuttosto volatile anche se lo hanno reso scientifico nella propria stabilità puntando per esempio sul voto dei pensionati (unici ad andare a votare) usando la paura a quelle persone che la vita (intesa come età) li ha resi maggiormente vulnerabili. Nella parte meridionale del Paese invece è bastato spingere sull’assistenzialismo per avere vita facile ma dimenticandosi che le clausole di salvaguardia andrebbero a far aumentare l’IVA che renderebbe ancora più povero chi è sostentato dallo stato;

Non è solo la politica a essere molto superficiale sposando il concetto “risposte semplici a problemi complessi”, ma è anche il popolo che ormai è condannato alla superficialità delle cose essendo anche senza memoria e quindi rendendo semplice la vita ai populisti che si cibano di persone poco profonde che non ragionano, altrimenti non si spiegherebbe come possa passare un concetto come quello del “prima gli italiani” non facendo politiche pro immigrazione a sostegno del welfare, non avendo le risorse nemmeno per sostenere quota 100. Ovviamente un buon populista non lavora su politiche a largo respiro ma piuttosto trova il colpevole nel Presidente dell’INPS e lo sostituisce come è successo poche ore fa.

Quindi lo schema del “prima io” porta molti voti ma non può sostenere un sistema che automaticamente non reggerebbe così come “prima gli italiani” non può funzionare in un mondo globalizzato e non sarebbero certo le politiche di uscita dall’Europa a salvarci. Nemmeno il machismo di Salvini potrà salvarci dal declino di un paese che ha un “fottuto” bisogno degli altri perché altrimenti non si regge; con il 133% di debito sul PIL, infatti la nostra sovranità l’abbiamo già persa da molto tempo.

La speranza è che, finita la “sbornia” populista, coloro i quali non si dovessero più riconoscere come appartenenti ad un “gregge” vogliano a questo punto un paese più illuminista e meno populista perché dopo il fascismo ed il comunismo ci si renda conto che il populismo è il terzo cancro che potrebbe sfociare in nuove guerre.

Se sei d’accordo con queste osservazioni non votare più per punire qualcuno ma vota per costruire un futuro diverso aprendoti alla possibilità di un Paese più democratico

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EU: perché il Consiglio europeo non decide più

Sergio Fabbrini, sul Sole24Ore di oggi, illustra le difficoltà di un meccanismo decisionale che era concepito per la gestione di un processo lento e senza scosse, condizione messa in crisi dall’accellerazione impressa dai populismi nazionalistici e dagli eventi geopolitici collegati alle perturbazioni medio orientali.
Come valutare l’esito del Consiglio europeo che si è tenuto giovedì e venerdì scorsi? La sua agenda era molto ambiziosa. I capi di governo dei ventotto stati membri dell’Unione europea avrebbero dovuto discutere molteplici temi, tutti di grande rilevanza. Eppure si è discusso quasi esclusivamente di due politiche, la politica migratoria e la politica finanziaria. Sulla prima si è giunti a conclusioni che hanno impedito (all’Ue) di cadere nel baratro, anche se non l’hanno allontanata da quest’ultimo. Sulla seconda si è addirittura giunti ad imbarazzanti non-conclusioni. Piuttosto che stabilire chi ha vinto e chi ha perso, vale piuttosto la pena di capire perché l’Ue non riesca a prendere decisioni. Ciò è dovuto all’intreccio tra sistema decisionale e natura delle politiche. Mi spiego.
Il sistema decisionale europeo si basa (sempre di più) sulla preminenza del Consiglio europeo. Quest’ultimo si è imposto come il governo collegiale dell’Europa. Con l’europeizzazione di temi cruciali per le sovranità nazionali, i governi degli stati membri hanno rivendicato un ruolo decisionale preminente rispetto all’esecutivo tradizionale, la Commissione. Il Consiglio europeo decide all’unanimità, proprio per garantire gli interessi politici dei governi nazionali che lo costituiscono. Ciò ha funzionato fino a quando si è operato in condizioni ordinarie. Le cose sono però cambiate con le crisi straordinarie di questo decennio. Gli effetti di quelle crisi hanno generato divisioni tra i vari governi, se non all’interno di ognuno di essi.
Si pensi alla crisi migratoria. I Paesi dell’est (il gruppo di Visegrad) hanno rifiutato l’accoglienza dei rifugiati, con grandi vantaggi elettorali. Ma tale accoglienza è stata contestata anche da governi dell’ovest, come il nostro (che ne ha beneficiato anch’esso elettoralmente). Oppure, nel caso tedesco, le divisioni si sono manifestate all’interno stesso del governo. Per il ministro dell’Interno Seehofer (leader dei Cristiano-sociali bavaresi della CSU) occorre rinviare nei Paesi di primo arrivo (come l’Italia) i rifugiati lì registrati e poi trasferitisi in Germania (i cosiddetti “movimenti secondari”), mentre per la cancelliera Merkel tale soluzione attiverebbe una catena di scelte unilaterali che condurrebbero allo smantellamento di Schengen (cioè del regime di libera circolazione degli individui tra i Paesi che hanno aderito al relativo Accordo). Insomma, l’immigrazione ha diviso i governi. E tale divisione, entrando nel Consiglio europeo, ha ostacolato il suo processo decisionale. Come può, un organismo così esposto ad interessi politici particolaristici, produrre decisioni collegiali efficaci?
E infatti quelle decisioni non sono state prese giovedì e venerdì scorsi. Consideriamo le due politiche, migratoria e finanziaria. Per quanto riguarda la prima, il Consiglio europeo è rimasto bloccato tra chi (la Germania) chiedeva di contrastare i “movimenti secondari”, chi voleva (l’Italia) trasferire sugli altri Paesi il carico migratorio e chi (i Paesi di Visegrad) si opponeva ad ogni meccanismo vincolante per la redistribuzione dei migranti che hanno diritto all’asilo politico (meccanismo che avrebbe invece aiutato l’Italia). Si è trattato di divisioni radicalizzate nonostante non vi sia un’emergenza migratoria. L’immigrazione illegale, nell’Ue, si è ridotta del 95 per cento rispetto al 2017, così come si sono ridotti drasticamente gli sbarchi in Italia (secondo il Dipartimento di Pubblica Sicurezza, nei primi sei mesi del 2018 sono diminuiti dell’84% rispetto al 2017 e dell’83% rispetto al 2016). Ciò nonostante, poiché l’immigrazione è divenuto il tema su cui si decide un’elezione nazionale, ogni capo di governo si è irrigidito sulle proprie posizioni. Con l’esito che il Consiglio europeo ha deciso poco o nulla. Verranno istituiti “centri controllati” di immigrati nei paesi di primo arrivo (tra cui l’Italia) in cui collocare coloro che hanno diritto a rimanere in Europa, per quindi distribuirli, su “base volontaria”, negli altri Paesi europei disponibili ad accoglierli (quindi non nei Paesi dei governi sovranisti). I centri disporranno di risorse finanziarie ed organizzative europee, ma senza toccare il Regolamento di Dublino. Inoltre, il Consiglio europeo ha confermato l’impegno finanziario (a cui anche noi contribuiamo) preso con la Turchia (affinché tenga nel suo territorio i milioni di siriani fuggiti dalla guerra civile nel loro Paese) e, soprattutto, ha riconosciuto il diritto degli stati membri (come la Germania) di prendere “tutte le necessarie misure amministrative e legislative per contrastare i movimenti secondari” (decisione che penalizza Paesi di primo arrivo come l’Italia). Seehofer (nel cui Land ci saranno elezioni il prossimo ottobre) potrà dire ai suoi elettori di aver ottenuto il controllo dell’immigrazione, allo stesso tempo Merkel continuerà ad essere cancelliera della Germania. Le richieste italiane, invece, verranno discusso in futuro. Non diversamente è avvenuto per quanto riguarda la politica finanziaria dell’Eurozona. In proposito si è deciso di “iniziare una roadmap per iniziare una negoziazione sullo Schema di assicurazione europea dei depositi bancari”, oltre che di avviare il percorso per la trasformazione del Meccanismo europeo di stabilità (ESM) nel backstop del Fondo per la risoluzione delle crisi bancarie. Punto e a capo. Le richieste di Paesi come l’Italia (di dotare l’Eurozona di risorse e strumenti anti-ciclici) sono state messe sotto il tappeto. Ciò per l’opposizione dei Paesi del nord dell’Eurozona, ma anche dei Paesi esterni all’Eurozona (peraltro coinvolti nella discussione sull’organizzazione di un regime monetario a cui non aderiscono). Come si vede, quando si tratta di distribuire migranti o soldi, il Consiglio europeo si blocca.
In conclusione, la causa dello stallo europeo è la combinazione di un sistema decisionale intergovernativo e politiche con effetti redistributivi. Per neutralizzare quello stallo ci vorrebbe una coalizione capace di produrre beni collettivi. Ma qui risiede il paradosso del sovranismo di cui è prigioniero il nostro governo. I governi sovranisti non possono trovare soluzioni collettive, in quanto ognuno si preoccupa di preservare il proprio specifico interesse politico. Tuttavia, di fronte alla crisi migratoria o finanziaria, ciò significa scaricare sugli altri la soluzione della crisi (con il risultato di esasperarla invece di risolverla). Alleandosi con i governi sovranisti, il nostro governo si è chiuso la possibilità di favorire soluzioni collettive (in cui collocare le soluzioni nazionali). È difficile influenzare le decisioni europee, ma diventa impossibile farlo quando non si hanno le alleanze giuste.
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Il nuovo e l’antico dello Stato di Israele

Dal Sole24Ore di oggi, un bell’articolo di Giulio Busi non solo sullo stato ma anche sulla storia d’Israele, forse utile per indicare quale può essere una strategia di sopravvivenza del pensiero ragionevole in tempi bui.
Il 14 maggio 1948, alla proclamazione dello Stato d’Israele, tutto sembra cominciare. E di fatto, inizia una costruzione nuova, un progetto che si sbilancia nel futuro. Alle spalle vi sono le macerie e la morte. La diaspora europea ha appena vissuto la sua ora più tragica. Un’ora che è durata anni, sempre più angoscianti, fino all’annichilimento di milioni di persone. E fu sera e fu mattino, ricorda la Torah. Se c’è mai stata una sera sulla terra, una notte interminabile, è stata quella che precede il 1948.
E il mattino? Dove comincia, da dove lo si misura? C’è una continuità segreta, a cui spesso non si fa attenzione, tra il prima e il dopo Israele. Certo, la compagine moderna di uno Stato, l’esercito, l’infrastruttura politica, sembrano nascere come dal nulla. Tutto può essere ripensato. C’è una plasmabilità, nella vicenda israeliana di questi primi settant’anni, sconosciuta a chi viva in Paesi dalla tradizione più lunga, dalle burocrazie secolari, cresciute strato dopo strato, regime dopo regime, negli stessi luoghi, spesso anche negli stessi edifici.
Il sionismo, che del nuovo Stato è l’anima, si è posto l’obiettivo di rompere con il passato. Un nuovo rapporto con la terra, un nuovo coraggio, l’esaltazione della volontà di difendersi, sono gli slogan del movimento. Basta con la sottomissione nata in due millenni di esilio. Bisogna riprendere in mano il proprio destino e combattere per avere un posto tra le nazioni. Con l’aratro e se, necessario, con il fucile. La novità di questo atteggiamento non cancella però un dato altrettanto importante. Se vogliamo restare al testo della Scrittura, il “giorno” di cui parliamo è uno solo. La sera e la mattina d’Israele sono legate l’una all’altra.
La fondazione dello Stato, nel 1948, riprende la storia dal punto in cui questa si era interrotta. Riprende cioè l’esistenza di una polis ebraica nell’unico luogo in cui questa è mai stata possibile, ovvero nella Terra d’Israele. Nell’immaginario israeliano, le rovine di Massada occupano ancor oggi un grande rilievo simbolico. I resti dell’insediamento, sull’altura che si affaccia sul paesaggio sconfinato del Mar Morto, servono come memoriale dell’ultima resistenza ebraica, durante la rivolta contro Roma, del 66-74. Qui si asserragliarono gl’irriducibili, dopo che il Tempio di Gerusalemme era stato distrutto nel 70 e la capitale conquistata. A Massada, gli assedianti romani dovettero realizzare una lunga rampa offensiva, prima di poter catturare il forte. Per decenni, le reclute dell’esercito israeliano sono venute qui per la cerimonia di giuramento dopo il loro addestramento.
Si può discutere sulla costruzione di simboli identitari, che segnano un passato comune, o che spesso lo costruiscono artificialmente. E si può accusare questa celebrazione di retorica. La sostanza non cambia. La continuità ebraica esiste, ed è documentata da una storia specifica, singolare.
Il fiume carsico, che dagli ultimi sussulti d’indipendenza, nel II secolo, porta dritto al 1948, scorre nascosto, ma non per questo meno eloquente. Dopo il 135 dell’era volgare, al tempo della nuova e nuovamente fallita rivolta antiromana di Bar Kokva, il giudaismo ha abbandonato l’opzione politica. Non per scelta, ma semplicemente perché questa non era più possibile. Non si poteva vincere contro i Romani, non contro i Bizantini. Non era possibile opporsi alla Persia né al potere militare musulmano, che nelle sue varie forme, e con la breve interruzione crociata, è durato qui dal VII al XX secolo. È un abbandono che riflette i rapporti sul terreno, la capacità di mobilitare risorse, l’organizzazione militare. Non basta amare un Paese o ritenersi in diritto di autodeterminarsi. Bisogna potere, e gli ebrei, nella terra che ancora abitavano nel I e II secolo, semplicemente non hanno più potuto.
È per questo che il 1948 segna una ripresa almeno quanto un nuovo inizio. Segna la ripresa del potere di autodeterminazione politica. Il progetto di una nuova nazione, le mutate condizioni internazionali, il post-colonialismo sono modi diversi per esprimere questo passaggio, dopo quasi due millenni di latenza. Abbiamo parlato di fiume carsico. Cosa significa questa lunghissimo tragitto invisibile della polis ebraica? Ci sono vari modi per difendere un’identità collettiva. Lo si può fare in presenza o in assenza. Una comunità può continuare ad abitare in uno stesso luogo, governarsi da sola, poi venir sottomessa, difendersi da chi la minaccia oppure aprirsi, trasformarsi, assimilarsi. Il luogo è restato il medesimo, la comunità si è trasformata, talvolta è diventata irriconoscibile. Ha cambiato fede religiosa, lingua, costumi, opinioni. Talvolta i resti del passato sono evidenti talaltra paiono trascurabili. Se prendiamo una durata di due millenni, la continuità in presenza, negli stessi luoghi e in un paesaggio di fondo che non cambia, non significa necessariamente che la polis originale sia durata né che la primitiva identità sia intatta.
L’ebraismo, proprio per il suo lunghissimo non-potere politico, ha dovuto scegliere il metodo in assenza. È la storia della diaspora, in cui la determinante geografica è instabile, provvisoria, mutevole. Il luogo, la cornice svaniscono, si trasformano, di generazione in generazione, o più volte nella stessa vita. In queste condizioni, l’identità si lega ad altri ormeggi. Le ancore ebraiche sono state, per lunghissimo tempo, l’osservanza dei precetti, la lingua, lo studio, la memoria della tradizione. Essere diversi, magari indicati a dito, cacciati, discriminati, ecco un altro confine, patito, sì, ma pur sempre tangibilissimo. I confini in assenza sono fisici ma anche mentali, o simbolici. La Terra d’Israele è stata ed è tuttora, anche per chi non vi abiti, una di queste frontiere assenti-presenti. Mai riavuta, poiché riaverla era impossibile. Sempre desiderata, poiché desiderarla era indispensabile.
Chi pensa che lo Stato d’Israele sia un’invenzione moderna, ultimo arrivato tra i nazionalismi del tardo Ottocento e del primo Novecento ha allo stesso tempo ragione e torto. Ha ragione, poiché il sionismo ha precise radici storiche e culturali. Ma ha anche torto, giacché un’identità in assenza permette di proiettare nella dimensione temporale ciò che le identità in presenza sperimentano nello spazio. La diaspora ebraica ha abitato Israele nel tempo, proprio perché non poteva farlo nello spazio. Non che non ne avesse la volontà, non ne aveva il potere. Quando ha potuto riavere il luogo di questa dimora, ha ricominciato ad abitarlo spazialmente. E a far funzionare di nuovo la polis come entità non più solo mentale e rituale, ma dotata dei suoi attributi di città-stato. Il titolo originale del romanzo-manifesto di Theodor Herzl, uscito nel 1902, è Altneuland. In italiano sarebbe “Vecchia terra nuova”, o qualcosa del genere. Ma in realtà è intraducibile, poiché la nostra lingua non ha l’efficacia espressiva dei composti tedeschi. Il Paese è un tempo vecchio e nuovo. Vecchio nello spazio, nuovo nel tempo. Oppure nuovo nello spazio e vecchio nel tempo. Ciascuno può scegliere quale significato dargli, dal 14 maggio di settant’anni fa.
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Il Disobbediente Franzoso

Essere liberali significa prima di tutto avere l’etica del rispetto della libertà e dell’iniziativa individuale, che permette di creare ricchezza morale culturale e materiale.

Questa è una prospettiva creativa, dinamica.

Al contrario certuni, tipicamente in un contesto burocratico ed opaco, operano in piena “libertà” appropriandosi dei beni altrui a proprio vantaggio e confidano nell’illiberale acquiescenza abitudinaria di chi li circonda.

Si tratta di una prospettiva estrattiva, dove tutto ciò che esiste intorno serve a procurarsi qualcosa ed il proprio contributo sociale è quello di una sanguisuga; purtroppo in Italia è un atteggiamento diffuso.

A questo secondo atteggiamento ha reagito con grande lucidità e coerenza ANDREA FRANZOSO, che racconta nel suo libro IL DISOBBEDIENTE  come abbia denunciato e fatto allontanare il Presidente delle Ferrovie Nord per l’utilizzo di ca. mezzo milione di Euro a favore suo e dei suoi familiari…

… denuncia pagata da Franzoso con il sostanziale allontanamento dall’azienda.

Siamo tutti con Andrea. Non con Franzoso, ma con Andrea, perché ci piace chiamare per nome le persone che sentiamo vicine.

Ora attendiamo l’approvazione della legge sul whistle-blowing.

PS Mentre attendete il libro che avrete sicuramente ordinato, seguite questa intervista ad Otto e Mezzo che parla anche della devastante presenza della n’drangheta a cui gli estrattori non fanno sicuramente paura, ma per la quale gli Andrea sono mortali.

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Alberto Negri e la Catalunya: Kurdistan

L’illuminante articolo di uno dei veri intellettuali (pochi a dir la veri… ) che ci parlano dai quotidiani italiani.
La secessione senza piano B porta al disastro economico!
Statalisti e secessionisti, dalla Catalogna al Kurdistan iracheno, turco, siriano, non hanno un piano B per uscire dal vicolo cieco in cui si sono cacciati. Scivolano verso la balcanizzazione dell’Unione europea e del Medio Oriente, per altro in atto da decenni, senza riuscire a fermare la corsa delle locomotive che hanno avviato mentre sta fallendo nel sangue e nella distruzione il tentativo di Stato Islamico di jihadisti.
Ci sono dei tratti in comune tra questi fenomeni, uno è quello di volere ignorare le interconnessioni tra le economie e il reale benessere dei cittadini.
Se è vero che Massud Barzani non ha nessun reale appoggio internazionale dopo il voto del referendum sull’indipendenza, lo stato iracheno e il governo sciita hanno mancato clamorosamente in una maggiore redistribuzione della ricchezza petrolifera e del potere politico non solo nei confronti dei curdi ma anche dei sunniti, la minoranza che ha perso il potere dopo la caduta di Saddam nel 2003 ma che continuerà a costituire un problema anche dopo la fine dell’entità territoriale dell’Isis .
La Turchia di Erdogan ha fallito il suo compito di modernizzare lo stato: il presidente turco ha sostituito il kemalismo con l’islam ma non ha fatto nulla per decentrare l’amministrazione statale ereditata dai generali, i veri custodi della repubblica laica e secolarista fondata nel 1923. Anzi con l’ultimo referendum ha concentrato il potere nelle sue mani. Quando si è aperta la prospettiva di un negoziato con i curdi, Erdogan nel 2015 ha fatto saltare il tavolo delle trattative con il capo del Pkk Abdullah Ocalan, nonostante che il suo fedelissimo Hakan Fidan avesse raggiunto un’intesa.
Il governo centrale di Madrid ha avuto diverse occasioni per smussare le tendenze secessioniste che in Catalogna ancora qualche hanno fa erano minoritarie. Al referendum del 2014 andò a votate meno del 40% della popolazione. Ma ogni concessione sull’autonomia finanziaria per questo governo risultava irricevibile, come fosse una mantra intoccabile riscuotere le tasse e dare come contropartita anche dei servizi su base locale.
Gli indipendentisti, che siano catalani o curdi, a loro volta fanno un calcolo sbagliato: sovrastimano la loro capacità di aggirare l’integrazione economica che sta alla base dello sviluppo economico contemporaneo. Gli inglesi si accorgono adesso con la Brexit che hanno perso una leva di condizionamento sul loro più importante mercato: «Riprendiamo il controllo» era lo slogan, riecheggiato poi anche dal sovranista Trump. I modesti risultati sono sotto gli occhi di tutti.
I curdi di Massud Barzani, leader di stampo feudale, vanno diritti verso la rovina economica, non ci vuole uno stratega per constatare che lo stato curdo separato da Baghdad è un’enclave senza via di uscita perché dipende nei trasporti terrestri e per l’esportazione delle sue risorse energetiche dalla Turchia, dall’Iran e da Baghdad, a meno che non negozi un passaggio e un porto franco dogana con il governo di Bashar Assad (cosa che vale anche per i curdi siriani del Rojava)
L’indipendenza curda è possibile ma deve essere accompagnata da buoni rapporti con almeno qualcuno dei suoi vicini altrimenti è un’utopia soffocante e senza sbocco. La verità è che Barzani, in gravi difficoltà interne, sia politiche che economiche, ha puntato sull’indipendenza a ogni costo per restare in sella. Non tutti i curdi lo seguiranno.
Il risultato delle sue mosse dissennate è stato che l’esercito di Baghdad, quasi senza sparare un colpo, ha occupato Kirkuk e i pozzi: così Barzani ha perso circa il 40% del petrolio di cui disponeva.
I catalani se dichiarano l’indipendenza resteranno isolati o nella mani del governo centrale che li sta commissariando. Un sovranità formale ma fuori dall’Unione europea può diventare una perdita ancora maggiore di autonomia e indipendenza. Il loro piano B, in alternativa a un negoziato che per altro Madrid si ostina a non volere concedere, è quello in stile kosovaro: dichiarare l’indipendenza e poi vedere nel corso del tempo chi la vuole riconoscere. È un modello accettabile? Forse ma il Kosovo è diventato indipendente dopo un decennio di guerre balcaniche, l’intervento internazionale della Nato nel 1999 e migliaia di morti. Non è un precedente confortante. Come non lo è per il governo di Madrid immaginare di avere nei prossimi anni una Catalogna inferocita e destabilizzata.
Jalal Talabani, morto il 3 ottobre, ex presidente iracheno, strenuo combattente curdo sin dall’adolescenza, qualche anno fa di fronte alle prospettive di un’indipendenza del Kurdistan fu molto chiaro: «Non è più tempo di piccole patrie ma di grandi unioni». E forse anche di utopie suicide.
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Liberiamo!

La Scuola

Ricordate (sicuramente, è una domanda retorica) la proposta di Liberiamo sulla Scuola?

Sta qui:

Scuola

Detto questo leggete cosa dice nella sostanza il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria.

“E qui gli interventi suggeriti: tagliare in maniera permanente il cuneo che grava sui datori (per aumentare la buona occupazione); incentivare i docenti con bonus monetari o promozioni di carriera (per migliorare la qualità dell’insegnamento nei territori); valorizzare l’istruzione tecnica, compresa quella superiore (che crea posti di lavoro); rilanciare politiche attive e misure di conciliazione vita-lavoro (per aiutare disoccupati e famiglie). La sfida, insomma, è abbattere quel muro che ancora divide formazione e mondo del lavoro. Lo hanno già fatto altri paesi ( Germania e Nord Europa, in testa) e i risultati (positivi) sono arrivati quasi subito. ”

Potremmo inorgoglirci, accusarlo di scopiazzare ecc. ma siamo realisti. E sperare che le TIMIDE riforme italiche possano proseguire meglio di come sono iniziate, anche se la cialtroneria di chi le ha depotenziate si è allontanata e quindi c’è una luce là davanti.

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Anagrafe dei Rapporti Bancari: danno e beffa

Ridiamo tutti pensando anche ai costi sostenuti dagli Intermediari per gestire questa robaccia.
Dal Sole24Ore di oggi © RIPRODUZIONE RISERVATA Gianni Trovati
Corte dei conti: rimane un flop l’anagrafe dei rapporti bancari
Proprio nel giorno in cui il governo lancia obiettivi anti-evasione più “ambiziosi” anche di quelli scritti nei documenti ufficiali, arriva il controcanto dei magistrati contabili. Sull’anagrafe dei rapporti finanziari, scrive la sezione centrale di controllo della Corte dei conti, «si deve rilevare una grave inadempienza dell’agenzia delle Entrate», che in pratica non ha mai davvero fatto partire lo strumento con cui avrebbe dovuto individuare i contribuenti più a rischio evasione andando a spulciare i loro conti correnti.
Sotto l’esame della sezione, non nuova a critiche puntute nei confronti dell’amministrazione finanziaria, è finita un’arma anti-evasione che ha una storia lunga, ha scatenato dibattiti intensi nel filone infinito delle polemiche sul «grande fratello fiscale», ma ha finora giocato un ruolo effettivo decisamente più marginale del previsto. Da qui deve ripartire la nuova agenzia delle Entrate-Riscossione, che nelle strategie definite da Ernesto Ruffini punta proprio su un rinnovato utilizzo delle banche dati per aumentare l’efficienza di controlli e riscossione e limitarne gli effetti collaterali (a partire dai pignoramenti che cadono in contenzioso).
Prevista dal 1991, avviata nel 2006 e utilizzabile dal 2009, l’anagrafe dei rapporti finanziari ha conosciuto una nuova fortuna a fine 2011. Con lo spread alle stelle, il debito pubblico italiano sulle prime pagine dei giornali in tutto il mondo e il governo Monti appena insediato, il ricco capitolo fiscale del decreto «salva-Italia» non si era scordato il rilancio di quello che avrebbe dovuto rappresentare uno dei pilastri dell’anti-evasione tramite banche dati. L’Agenzia, spiega l’articolo 11, comma 4 del Dl 201/2011, avrebbe dovuto utilizzare il censimento telematico dei rapporti finanziari per disegnare gli identikit degli italiani più a rischio evasione, e stilare le «liste selettive» dei contribuenti che a quell’immagine fossero più vicini. Una volta definito il campo, i controlli avrebbero dovuto offrire risultati di peso, da dettagliare in una relazione annuale al Parlamento.
Alle Camere non è arrivata alcuna relazione, perché le liste selettive non sono state composte, i criteri per individuarle non sono stati fissati e in sostanza la macchina congegnata dal decreto anti-crisi non è mai partita. Per la Corte il difetto è nel manico, cioè «nell’approccio dell’Agenzia all’elaborazione delle liste», che agli occhi della Corte dei conti appare «in palese contraddizione con la ratio della norma». Il problema, sostengono i magistrati, è che il database contiene l’anagrafica e la storia dei rapporti finanziari (tipologia, date di apertura e chiusura, modifiche in corso d’opera) ma ne trascura il cuore: i saldi e le movimentazioni. Risalendo nella catena delle cause, quindi, la scarsa fortuna operativa dell’anagrafe nasce dal fatto che così non funziona.
Si spiegano anche in questo modo i numeri ultra-leggeri delle indagini finanziarie, che nel 2016 hanno spulciato i conti correnti di solo 5.200 italiani (si veda il Sole 24 Ore del 6 agosto). Una sorte analoga a quella vissuta da un altro classico del dibattito fiscale, il redditometro: rilanciato in grande stile nel 2010, oggetto di miriadi di convegni e approfondimenti, l’anno scorso ha guidato 2.812 accertamenti. Meno di una goccia nel mare dell’evasione.

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Zingales nuovo paper da scaricare

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Mettiamo a disposizione il nuovo (di luglio) contributo di Luigi Zingales.
Interessante come al solito… salvo i probabili commenti partigiani che purtroppo non si fanno mai attendere quando si ha coraggio di mettere nero su bianco il proprio pensiero.
Tempi oscuri. La Forza sia con voi.

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Lean management e rifugiati….

Importante articolo da leggere tutto d’un fiato. Non vogliamo fare paralleli con altri interventi di questi signori ma…. diciamo che è difficile resistere.

How McKinsey quietly shaped Europe’s response to the refugee crisis
(dal Washington Post) By Isaac Stanley-Becker July 24 at 3:55 PM

BERLIN — It was October 2015. With winter approaching and no end in sight to the flow of migrants seeking refuge from the Syrian civil war, Germany needed a solution — fast.
Processing centers for refugees had exceeded capacity. Asylum claims were backlogged. Temporary tent cities would not survive the punishing winter months.
So Germany did what governments increasingly do when facing apparently unmanageable problems. It called in multinational management consulting firms, including New York-based giant McKinsey & Co., to streamline its asylum procedures.
Germany has paid McKinsey 29.3 million euros, the equivalent of nearly $34 million, for work with the federal migration office that began in October 2015 and continues to this day. The office also brought in two Europe-based firms, Roland Berger and Ernst & Young.
Among McKinsey’s projects has been the development of fast-track arrival centers with the capacity to process claims within days. The company’s work on migration issues also has taken its consultants to Greece and Sweden. This year, McKinsey submitted a bid for a project with the United Nations.
Experts in international law said the German case illustrates risks associated with McKinsey’s input. Today, asylum decisions handed down by the federal migration office come faster but are leaving an increasing number of migrants with fewer rights, above all the right to family reunification, triggering hundreds of thousands of appeals that have created a new backlog — not in asylum centers, but in German courts.
“We’re not used to seeing business consultants brought into the process,” said Minos Mouzourakis of the Brussels-based European Council on Refugees and Exiles. “McKinsey and others developed a system for more efficient management of asylum cases to make sure that the backlog of cases could be cleared. This led to a substantial number of decisions being taken, but with a significant drop in quality.”
Legal experts said the shift to limited protection, which accompanied the introduction of fast-track asylum centers and expedited denial for certain classes of migrants, is inseparable from the overall drive toward administrative efficiency and control of the movement of migrants — goals championed by the firm.
“This is a very sensitive area of law where you can’t just streamline things, and I’m not sure that McKinsey’s approach is one that systematically takes human rights concerns into account,” said Nora Markard, a professor of constitutional law at the University of Hamburg and director of its refugee law clinic.
Markard observed that more efficient procedures were introduced at the same time that the federal migration office began granting only subsidiary protection — a status that recognizes an asylum seeker may suffer serious harm in his or her country of origin but doesn’t qualify as a refugee — to an increasing number of migrants from Syria, thereby allowing them only a one year residence permit instead of the three allowed refugees, and denying them the right to family reunification.
“It’s not coincidental that these changes happened at the same time,” Markard said. “The government had to deal with a very large number of arrivals very quickly, which meant that part of increasing efficiency was limiting entry in any way they could.”
Government officials interviewed were adamant that McKinsey’s work has not involved specifying what sort of sanctuary should be granted. “Absolutely not,” said Andrea Brinkmann, a spokeswoman for the German migration office, when asked
whether McKinsey weighed in on the use of subsidiary protection.
With 14,000 employees and offices around the world, McKinsey has advised corporations on everything from aerospace to paper products, and public-sector institutions ranging from schools to the CIA.
A 2016 report, “People on the move: Global migration’s impact and opportunity,” outlines how more efficient integration procedures might boost national economies as well as benefit migrants. Produced by the McKinsey Global Institute, the report applies “the analytical tools of economics with the insights of business leaders” to the international refugee crisis.
One of its authors, Khaled Rifai, a partner in New York, said the company sees the use of “temporary status,” a common shorthand for subsidiary protection, as effective in quickly integrating new arrivals into jobs and housing, but he did not address the denial of the right to family reunification.
“In general, we can say that issuing temporary status that allows people to have access to labor markets, to housing, to health is actually beneficial from an economic perspective in the short term in most cases, and is also beneficial from a social outcome perspective in the long term,” he said.
An economist by training, Rifai said he was “not a humanitarian law specialist steeped in the Geneva Conventions.” He said his interest was personal; he is half-German, half-Syrian.
McKinsey spokesman Kai Peter Rath said he couldn’t confirm the specifics of refugee-related projects. “I don’t want to call it secret,” he said. “Our policy is if the client wants to talk about it, it’s the decision of the client.”
Public records and interviews with government officials, however, show that McKinsey’s influence on refugee policy spans Europe — a role not widely publicized and surprising to some legal experts.
“It’s the first I’ve heard that McKinsey was involved,” said James C. Hathaway, a professor of refugee law at the University of Michigan.
Some of McKinsey’s earliest work on this issue was with the Swedish Migration Agency in 2008 and 2009, to install “lean management” practices, said Veronika Lindstrand Kant, the agency’s deputy director of operations. Slashing processing times worked until 2015, when the new wave of asylum seekers expanded the caseload. Migrants are again waiting about 500 days for a decision, Lindstrand Kant said. McKinsey was paid more than $2 million.
In late 2016 and early 2017, the company worked to reduce the backlog of asylum claims in Greece, first with the European Commission, spokeswoman Natasha Bertaud said, and then through a project funded by the European Asylum Support Office.
It was paid about $1 million for the final project, said Jean-Pierre Schembri, a spokesman for the Malta-based organization.
The company is seeking to expand its reach. This spring, it submitted a bid to the Office of the U.N. High Commissioner for Refugees for a project on refugee resettlement. In an email, a project manager in McKinsey’s Germany office asked an American legal expert to sign on to its proposal. The McKinsey bid was ultimately not accepted, a UNHCR spokeswoman said. The expert, who asked not to be identified because she was not authorized to circulate the request, declined to join the project.
She said she was not convinced the company had assembled a team of sufficiently high caliber to tackle resettlement.

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Euro: rimanere, senza alternative

Si è chiuso, lo ricordiamo, il dibattito sull’Euro ospitato dal Sole 24 Ore e promosso da Luigi Zingales; lo abbiamo seguito e riproponiamo tutti gli articoli.

La conclusione è riassunta nel titolo di questa pagina: non ci sono alternative all’Euro.

Euro Dibattito (Sole24Ore-Zingales)

 

 

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TrumpCare: who cares?

Abbiamo aggiornato la pagina su ObamaCare con il link al più noto website che si occupa di sanità USA.

ObamaCare 2020

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AFRICA : I Fatti

Siamo in un momento, come dire….. cruciale di scontro tra fazioni. Una lotta settaria e falsamente documentata tra soggetti politici e sociali che vedono nell’immigrazione l’inizio della fine della nostra civiltà ed altri che sono più possibilisti e puntano il dito contro quanto ostacolerebbe una corretta gestione del fenomeno.

Soprattutto è lo IUS SOLI and incancrenire il dibattito.

Facciamo cosa gradita a noi stessi, e agli altri, invitandovi a caricare il documento di sintesi sull’Africa che fu preparato ca. 3 anni fa da MARCO ZUPI, attualmente Vice Direttore del CESPI (Centro Studi Politica Internazionale). E’ comunque assai attuale.

E’ uno splendido esempio di come i NUMERI distruggano alcune posizioni e ne supportino altre. Investite un quarto d’ora del vostro tempo per diventare meno ignoranti (come è successo allo scrivente).

Eccolo: Marco Zupi Africa PI0097App

Buona lettura

 

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Euro Dibattito Zingales

Senza particolare clamore, oramai, ma con una sostanza evidente continua il dibattito sull’Euro lanciato da Luigi Zingales.

Segnaliamo il ritorno di La Malfa per un contributo interessante nella sua prospettiva storica.

Euro Dibattito

 

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Omeopatia: uno scandalo continuo

Basta.

Non possiamo più tollerare lo scandalo immondo dell’omeopatia, pseudo dottrina pseudo scientifica basata sui vaneggiamenti di un tedesco dell’inizio del secolo XIX. L’imbroglione è stato poi usato nei secoli successivi per dare una pseudo base alla pratica truffaldina dell’autosuggestione aiutata da boccette colorate e da etichette piene di nomi incomprensibili alla massa.

Basta.

Liberiamo è per la scienza e per il buon senso; impegnamoci a stigmatizzare in ogni momento questa pratica che, estesa a milioni di soggetti, è un imbroglio mortale e pernicioso.

Un banale riferimento: Wikipedia

 

 

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Il Zingales-dibattito sull’Euro

Tutto il dibattito giorno per giorno su Liberiamo (copyright del Sole24Ore).

Per ritardatari e curiosi. E per tutti quelli che vogliono capire meglio.

Euro Dibattito (Sole24Ore-Zingales)

 

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Uscire dal donmilanismo…

Dal Sole24Ore di oggi, 26 marzo 2017, di Paola Mastrocola
Grammatica e ortografia sono reazionarie? Lo diceva don Milani. O non sono forse la cosa più importante da insegnare?
Le Paginette di questo mese mi sa che saranno un’unica Pagina. Ancora sulla scuola. Bene o male, che io lo voglia o no, la scuola ancora occupa i miei pensieri, sollecitati ora da due dibattiti che il «Domenicale» ospita e che potrebbero sembrare lontani tra di loro, ma a me appaiono sorprendentemente molto vicini.
Il primo riguarda la lingua italiana, ovvero la scarsa conoscenza e capacità linguistica – ortografica e grammaticale – che sembra contraddistinguere i nostri giovani. Così denuncia la «lettera-appello dei 600», firmata da professori della Crusca e non, linguisti, insegnanti e scrittori (tra cui la sottoscritta). Mi sono stupita due volte: la prima, dell’attenzione che la lettera ha riscosso. Finalmente! È una battaglia che, personalmente, conduco da una quindicina d’anni almeno (non da sola, per fortuna: basti pensare a Segmenti e bastoncini, il formidabile libro di Lucio Russo del 1998!) e che si è sempre dissolta nelle nebbie. Ma si sa, dipende dal momento: una voce può cadere nel momento sbagliato. Evidentemente questo è giusto, e me ne rallegro.
Credo che tutti dovrebbero firmare un appello del genere. Tutti i cittadini, dico, italiani e stranieri, dovrebbero insorgere, protestare, denunciare lo stato d’ignoranza e decadimento non solo linguistico ma culturale in cui versiamo. Dovrebbero insorgere anche persone che non appartengono all’ambiente dei linguisti, accademici e insegnanti di scuola: indistintamente, tutti coloro che hanno a cuore i libri, primi fra tutti gli scrittori e i lettori, gente cui mi pare debba importare moltissimo che si continui a scrivere bene e a capire quel è scritto. E naturalmente, primi fra i primi, i professionisti dei libri: gli editor, per esempio, coloro che controllano ogni frase, ogni parola, ogni virgola, e fanno sì che un libro esca senza errori, né ortografici né grammaticali né logici, neanche uno!
La seconda cosa che mi ha destato stupore è che non tutti siano d’accordo, cioè che per alcuni non sia affatto vero che i giovani non sanno parlare e scrivere in italiano. Secondo costoro sarebbe solo l’opinione dei soliti pessimisti-catastrofisti-nostalgici-reazionari. Quindi, dipende… C’è chi denuncia il decadimento e c’è chi lo nega. Alla fine si riduce sempre tutto a una questione di ottimismo o pessimismo.
Mi son fatta l’idea che dipenda dalle solite questioni ideologiche. Sembra che il pessimismo sia di destra, e l’ottimismo di sinistra… (ci vorrebbe Giorgio Gaber!). Sembra, insomma, che per chi di noi si professa progressista sia molto arduo ammettere, seppur in un ambito parziale e delimitato, una leggera forma di regresso. Detto mirabilmente da Jean-Claude Michéa: «Un militante di sinistra è sostanzialmente riconoscibile, ai nostri giorni, dal fatto che gli è psicologicamente impossibile ammettere che, in qualunque campo, le cose potessero andare meglio prima».
Ma non dovrebbe essere, la decadenza linguistica, un fenomeno oggettivo, assodato e incontrovertibile, se in una classe di liceo i due terzi dei ragazzi prendono l’insufficienza in dettato ortografico? E non dovrebbe oggettivamente far riflettere il fatto che ci si sia ridotti a far dettato al liceo e finanche all’università, pessimisti o ottimisti che si sia? O forse si pensa che il linguaggio verbale sia solo uno dei possibili linguaggi, e come tale sia soggetto al tempo, e sia oggi in via di estinzione in attesa che nascano altri, e ben più “nuovi”, sistemi di comunicazione ed espressione?
In quanto alla questione se si debba far grammatica alle elementari, o medie, o superiori o università, non so, mi sembra talmente lapalissiano che sia meglio cominciare a sei anni che a diciotto… Aggiungo solo, per quanto vale, che dalla mia esperienza diretta di insegnante di liceo ho notato quanto sia difficile estirpare errori ortografici in ragazzi che hanno ormai quindici anni, nonché farli entrare per la prima volta a quell’età nel tempio logico-consequenziale dell’analisi del periodo, qualora non abbiamo avuto il bene di frequentarlo prima, detto tempio.
Ma, come ho ripetuto nei miei libri fino alla nausea, penso che la mia generazione espressamente non abbia voluto insegnare grammatica, né far veramente leggere i classici a scuola. E questo per questioni ideologiche. Non far grammatica è di sinistra. Il che implicherebbe che farla (e difenderla) è di destra? O esiste una grammatica democratica e una no? In effetti, ora ricordo, esiste un documento di «pedagogia linguistica democratica» del 1975, in cui si dice: «Buona parte degli errori di lettura e ortografia dipendono da scarsa maturazione della capacità di coordinamento spaziale, essi dunque vanno curati non insegnando norme ortografiche direttamente, ma insegnando a ballare, ad apparecchiare ordinatamente la tavola, ad allacciarsi le scarpe». Non vorrei sembrare banalmente deduttiva, ma mi pare che da qui emerga che l’ortografia non è democratica e, anche, che forse il nuovo metodo (indiretto e democratico) non ha funzionato benissimo: i giovani oggi sanno forse ballare, ma qualche problemino ortografico pare ce l’abbiano. A margine: da tutto ciò si spiegherebbe anche perché, in un altro grande dibattito in corso, il liceo classico sia sempre bollato di élitarismo (ovvero scarsa democraticità): in effetti, difficile fare latino e greco senza grammatica e analisi logica.
E qui veniamo al secondo, e più recente dibattito: quello su don Milani. Comincia Lorenzo Tomasin (il 26 febbraio, su questo giornale), schierandosi dalla parte della professoressa della famosa Lettera. Continuano Carlo Ossola e Franco Lorenzoni (il 5 marzo), difendendo «una scuola democratica».
Nessuno mette in dubbio l’altissimo valore dell’operato di don Milani, e di tutti coloro che insieme a lui si batterono per aprire la scuola ai ceti meno avvantaggiati. Ed è giustissimo, come fa Ossola, collocare storicamente quell’operato, sacrosanto negli anni ’60, quando l’Italia si avviava a un processo di modificazione sociale enorme. Se poi la scuola, proprio a partire da quelle idee, è andata storta, don Milani non c’entra. «Non si possono imputare ai Padri le colpe dei figli», dice Ossola. Sono d’accordo. (In un mio libro del 2011, dedicai un intero capitolo a distinguere tra don Milani e il “donmilanismo”!). Ma i libri sono libri, e come tali vanno giudicati, anche al di là del loro tempo, visto che i libri travalicano il tempo. Quindi dovremmo tutti con pazienza rileggere oggi Lettera a una professoressa, soprattutto per questo sorprendente fenomeno: che don Milani rimane a tutt’oggi, dopo cinquant’anni, l’unica forte icona (molto sacralizzata, invero!) cui continua a ispirarsi la nostra scuola (si vedano i ministri dell’Istruzione che lo citano sempre, a ogni discorso d’insediamento, a qualsiasi parte politica appartengano. Cosa su cui dovremmo interrogarci… Cos’è, un omaggio dovuto al nostro cattolicesimo?). Dovremmo rileggere oggi quel libro, distinguendo, in don Milani, l’operato (encomiabile almeno nelle intenzioni) dall’opera (discutibile, a tratti aberrante). I libri hanno una loro vita, separata dalla vita dei loro autori. Sarebbe il colmo che giudicassimo Guerra e pace in base a come Tolstoj trattava la moglie!
Anche Tomasin, nel suo articolo davvero molto coraggioso (chi tocca don Milani muore!), parte di qui, dal fatto che ha riletto ora quel libro, e dallo sconcertato stupore che ha provato. Stupore che s’incentra su due punti: che la scuola prefigurata da don Milani “è giust’appunto quella che oggi tutti deprecano”, e che quel suo librino trasudi odio di classe, risentimento, ovvero il rancore dei poveri verso i ricchi, di Gianni figlio del contadino verso Pierino figlio del dottore.
Condivido lo stesso stupore, e per le stesse ragioni. In effetti, la nostra scuola oggi è esattamente quella che voleva don Milani cinquant’anni fa. Infatti abbiamo emarginato sempre più la grammatica e la letteratura (dei classici, in primis) sostituendola con attività di vario intrattenimento (v. i progetti del POF). Andiamo a rileggere i passi in cui s’invita la professoressa a non fare grammatica perché la lingua è appannaggio dell’élite, e a non fare Foscolo o l’Iliade del Monti perché la difficoltà di quei testi umilia i “poveri”. Ad esempio: «Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri (…). I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro (…). Tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di lingua, l’ha detto la Costituzione. Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione». Bene. È da cinquant’anni che facciamo a scuola più Costituzione che grammatica; oggi in particolare facciamo Educazione alla cittadinanza, non certo Educazione alla grammatica. E andiamo al finale del libro, dove è espresso il sogno della nuova scuola, democratica: «A pedagogia vi chiederemo solo di Gianni. A italiano di raccontarci come avete fatto a scrivere questa bella lettera. A latino qualche parola antica che dice il vostro nonno. A geografia la vita dei contadini inglesi. A storia i motivi per cui i montanari scendono al piano. A scienze ci parlerete di sarmenti e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliegie».
E noi questa scuola abbiamo fatto e facciamo: ha vinto l’esperienza (il saper fare, si dice così?), non certo il sapere. Non dovremmo quindi stupirci se ora i nostri ragazzi non sono capaci di scrivere, non sanno dov’è il Caucaso, non studiano più latino e hanno un lessico ristrettissimo. Ma sia chiaro, il colpevole non è don Milani, siamo noi, è la pervicacia sconsiderata con cui per cinquant’anni abbiamo continuato quella sua strada, forse giustissima allora, ma oggi? L’operazione di don Milani allora aveva un senso, perché il problema era di includere i figli dei contadini e fare una scuola per tutti. Ma oggi il mondo è cambiato… Non abbiamo a scuola i figli dei contadini, e se li abbiamo, non versano nello stato di cinquant’anni fa. Certo, abbiamo ancora, e sempre più, i deboli da proteggere: i ragazzi che arrivano dall’estero, che abitano in quartieri socialmente e culturalmente degradati. A questi dobbiamo pensare. Ma come? Che l’idea di don Milani avesse allora un senso, non implica che quel senso non fosse sbagliato già allora, e che lo sia probabilmente oggi più che mai. Voglio dire che si potrebbe avere un’idea esattamente contraria, per raggiungere lo stesso nobile fine: cioè, proprio per aiutare i figli dei contadini (tradotto i ragazzi oggi più deboli), si potrebbe rendere più difficile, e non più facile, la scuola. Tradotto, dovremmo fare proprio l’Iliade del Monti (che, tra l’altro, piace moltissimo ai ragazzi!), e non approntare ridicole traduzioncine, semplici e prosastiche, col linguaggio più piatto possibile, perché gli attuali “figli dei contadini” non facciano fatica e siano inclusi! Inclusi in cosa, poi? In un percorso di studi fittizio e ingannevole, che li lascia impreparati ad affrontare gli studi più alti e le professioni più ambite? C’è una sottile punta di razzismo, direi, in questa idea che i ceti cosiddetti ceti subalterni non possano elevarsi, emanciparsi dalle loro origini e accostarsi alla cultura alta.
Ma niente, siamo fermi a cinquant’anni fa, non vedo spiragli. La vera domanda è questa: ma noi potremo mai far serenamente grammatica e letteratura senza la colpevole sensazione di non essere democratici? Arriveremo mai a pensare che proprio insegnare ai massimi livelli la nostra lingua, facendo leggere i testi più difficili del nostro patrimonio culturale, aiuterebbe i giovani (tutti i giovani!) ad avere gli strumenti per migliorare la loro sorte, di cittadini e lavoratori, ma prima di tutto di persone? Siamo destinati ancora per quanto a trascinarci appresso vecchi fantasmi e arrugginite catene?
Io credo che dovrebbe starci molto a cuore che i nostri ragazzi scrivano niente e non gnente, ce n’è e non cé né. E soprattutto, che sappiano capire quel che leggono, e costruire un discorso loro, dotato di senso e ben organizzato. Che sappiano cogliere i nessi logici, le sfumature e i significati più profondi di un testo, orale o scritto. Credo che dovrebbe stare a cuore a tutti questo, a pessimisti e ottimisti, gente di destra o di sinistra, cattolici e non. E credo che la strada sarebbe estremamente semplice e piana: se vogliamo che i giovani sappiano l’italiano, bisogna insegnare italiano a scuola, dal primo anno all’ultimo. Ma bisogna volerlo, volerlo veramente, tutti quanti. E decidere di farlo. Non risolveremo mai nulla, se non decideremo tutti quanti – come società, come Italia – che nella scuola sia bene tornare a insegnare a leggere, scrivere e parlare, a partire dalla prima elementare.
Ma noi vogliamo veramente che i giovani sappiano l’italiano? O una scuola dove si insegnino soltanto e umilmente le basi della nostra lingua, con rigore e serietà, ci sembra ancora una scuola troppo reazionaria, antiquata, banale, inutile, poco creativa, poco gratificante e… per niente democratica?

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Scuola. Molto da fare….

Pubblichiamo dal SOLE24ORE di oggi.

La pagella dei 15enni: «sei» in matematica, male in scienze e italiano

di Pierangelo Soldavini

La scuola italiana rimane indietro per efficacia dell’insegnamento nelle materie scientifiche e nella lettura, ma recupera terreno nella matematica. Il tutto in una situazione in cui si va ampliando il divario a livello geografico tra un Nord che arriva a confrontarsi con i Paesi più virtuosi e un Sud decisamente più arretrato , come anche a livello di genere. Sono questi i risultati presentati ieri dal rapporto Pisa, la rilevazione triennale dell’Ocse che misura la qualità e l’efficienza dei sistemi scolastici dei paesi membri con una indagine a tappeto sugli studenti quindicenni.

Matematica
Per quanto riguarda la matematica gli studenti italiani hanno infatti raggiunto un punteggio di 490 punti, attorno alla media dei paesi Ocse, rispetto ai 466 punti del 2003 e ai 485 punti del 2012, proseguendo un progressivo recupero che ha portato il nostro paese a superare negli ultimi tre anni gli Stati Uniti e a raggiungere Francia e Gran Bretagna a livello di performance matematica. In più la fascia un ragazzo su dieci, in linea con la media Ocse, fa parte della fascia degli studenti migliori, con un miglioramento di 3,5 punti percentuali rispetto a dodici anni prima.

Male nelle materie scientifiche
Se la situazione sul fronte dei numeri mostra segnali confortanti, i numeri non sono altrettanto positivi per quanto riguarda l’educazione alla scienza nel suo complesso. Anche se si tratta di classifiche stilate con metodo statistico, il valore della rilevazione Pisa indica un Paese che non riesci a migliorare la qualità dell’istruzione non solo alle materie ma al metodo scientifico nel suo complesso, una delle competenze chiave per le preparazione al mondo del lavoro del nuovo secolo.

La performance degli studenti italiani in materia di scienza si ferma a 481, non molto variato rispetto a nove anni prima (475 nel 2006), con un distacco di dodici punti rispetto alla media Ocse, che sale a oltre 50 punti rispetto ai migliori (Estonia, Giappone e Singapore. Gli studenti appartenenti alla fascia più elevata, quelli in grado di applicare in maniera autonoma e creativa conoscenze e competenze scientifiche a un ampio spettro di situazioni, anche sconosciute, in Italia sono limitati al 4% del totale, la metà della media Ocse.
A livello geografico la situazione si va polarizzando con le eccellenze scientifiche con performance decisamente al di sopra della media nazionale che si registrano a Bolzano, Trento e in Lombarda, su livelli che si confrontano con i paesi migliori a livello mondiale. Mentre gli studenti della Campania sono in deciso ritardo: 3o punti in meno rispetto alla media, l’equivalente circa di un anno di studio.

Forte la differenza di genere
Ma note dolenti arrivano anche dalla differenza di genere, una delle principali criticità del sistema scolastico italiano. Se nella lettura le ragazze sopravanzano i ragazzi, la situazione si inverte in campo scientifico e, anzi, la forbice continua ad allargarsi: i maschi hanno performance superiori per un punteggio arrivato a 17 punti rispetto alle ragazze, una delle differenze più alte tra i Paesi Ocse, per di più ampliata di ben 14 punti tra il 2006 e oggi. Per quanto riguarda la matematica il gap dei risultati aumenta arrivando a venti punti, anche in questo caso uno dei più larghi tra i paesi Ocse, ma in questo caso è rimasto sostanzialmente stabile negli ultimi anni. Come nel resto dei paesi oggetto della rilevazione, le ragazze in seguito prediligono una carriera nell’ambito scientifico-medico, mentre il percorso ingegneristico e informato è a grande prevalenza maschile. Anche se a quindici anni gli studenti sono ancora molto indecisi sul loro futuro, quasi un quarto dei ragazzi (il 23% in Italia, in linea con la media) ritiene che la sua futura professione avrà bisogno di ulteriore formazione in ambito scientifico.

Spesa nella media (ma in forte calo)
I risultati non certo brillanti dell’insegnamento si confrontano con una spesa che è sostanzialmente in linea con la media Ocse. L’investimento per ragazzo nella sua formazione nella scuola dell’obbligo – tra i sei e i 15 anni – è pari a 87mila dollari (calcolati a parità di potere d’acquisto), non molto distante dai 90mila dollari di media. Ma tra il 2005 e il 2013 la spesa pubblica per studente è crollata dell’11% circa (in termini reali) in Italia, mentre la spesa media Ocse è lievitata del 19%.
Tanto tempo sui libri
Nonostante tutto gli studenti italiani passano più tempo sui libri rispetto ai loro colleghi. Ogni settimana stanno a scuola in media 29 ore e poi a casa studiano per altre 21 ore, per un totale di circa 50 ore, che si confronta don una media di 44 ore. Ma molti paesi ottengono risultati decisamente migliori con meno tempo dedicato allo studio: in Finlandia la media è di 36 ore, così come in Germania, in Svizzera è di 38 e in Giappone di 41 ore.

I sistemi migliori
Singapore si conferma il miglior sistema scolastico per i risultati in ambito scientifico, seguito da Giappone, Estonia, Finlandia e Canada. Il rapporto Pisa segnala comunque che, a dispetto del significativo avanzamento della scienza e della sua rilevanza nella vita quotidiana di tutti, le performance scolastiche nelle materie scientifiche sono rimaste sostanzialmente invariate a livello globale. Nonostante questo alcuni sistemi hanno messo a segno miglioramenti significativi, a partire da Israele per arrivare a paesi come Colombia, Portogallo e Romania.
Per quanto riguarda la differenza di genere, le differenze si stanno riducendo a livello mondiale ma rimangono molto evidenti, a favore dei maschi, nella fascia delle eccellenze. Con una sola eccezione: la Finlandia è l’unico paese dove le ragazze superano i colleghi maschi nelle performance migliori

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Liberiamo il Libero Commercio

Segnaliamo un interessante conferenza stampa, tenuta da alcuni dei compagni d’avventura di Liberiamo tra i quali Alessandro De Nicola, che si terrà

il giorno 25 Ottobre p.v. alle ore 10

c/o la Fondazione Einaudi, in Largo dei Fiorentini, 1, Roma.

Il titolo dell’incontro, che è un evidente omaggio alla tradizione iniziata da quest’Associazione, è beneaugurante.

Intervenite numerosi ed entusiasti come al solito.

Ulteriori indicazioni sono sulla pagina Facebook del

COMITATO PER IL LIBERO COMMERCIO,

il cui manifesto programmatico è il seguente

Manifesto Comitato Libero Commercio

 

 

 

 

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Mosse e un approccio al cambiamento

Publichiamo un articolo di Gentile che ci dà spunti per individuare come e se un movimento politico/culturale che vuole cambiare un Paese può superare la fase delle dichiarazioni e delle buone intenzioni.
Per chi non conoscesse Mosse può essere l’occasione per avvicinare uno dei più grandi uomini di scienza del secolo scorso, entrando da una porticina secondaria del suo genio.
Innovatore senza carisma di Emilio Gentile – Il Sole 24 Ore di domenica 18 settembre 2016
A 100 anni dalla nascita dello statista, torna la riflessione di Mosse: all’azione politica non si affiancavano simboli e riti che la potenziassero
«Non vi è dubbio che la carriera politica di Aldo Moro assume un significato di interesse generale perché è strettamente collegata a quella crisi del sistema di governo parlamentare che si è manifestata in tutta la sua gravità nel corso del XX secolo».
Sono trascorsi quasi quaranta anni da quando lo storico George L. Mosse espresse questo giudizio in una lunga intervista sul politico democristiano pubblicata alla fine del 1979, come introduzione a un’antologia di scritti e discorsi, incluse le lettere scritte da Moro mentre era prigioniero delle Brigate rosse, prima di essere assassinato con fredda ferocia. L’intervista è stata di recente ripubblicata con una prefazione di Renato Moro, storico del movimento cattolico che ha dedicato importanti saggi alla formazione culturale di Aldo Moro, e con una nota critica di Donatello Aramini, autore di un’accurata ricerca sulla fortuna di Mosse in Italia (George L. Mosse, l’Italia e gli storici, Franco Angeli 2010).
Mosse non era un esperto della storia e della politica italiana. L’intervista fu severamente giudicata da storici laici e cattolici. Renato Moro ricorda «i commenti ironici sul solito, impreparato e dilettantesco intellettuale americano che non poteva capire la politica e la storia italiana». Tuttavia, rileggendo l’intervista dopo che al politico italiano sono stati dedicati molti studi, le considerazioni di Mosse sul suo pensiero e sulla sua azione politica, anche se generiche, non sono prive di interesse. Specialmente interessanti sono le riflessioni sulla crisi della democrazia parlamentare italiana, che si leggono oggi con maggior inquietudine, se si fa un confronto fra la crisi della democrazia parlamentare al tempo di Moro e la crisi attuale. Ciò che accomuna le due crisi, nella sostanziale diversità fra le due epoche, è soprattutto il forte senso di alienazione dei cittadini dalla democrazia parlamentare, in un periodo di grave crisi economica e di acute tensioni sociali, che possono metterla in pericolo.
Mosse attribuiva al leader democristiano una strategia lungimirante, ispirata ai valori di un cristianesimo democratico non confessionale e ad una concezione dello Stato «come un processo, come un qualcosa continuamente in fieri, un organismo sensibile ai mutamenti e che, eccezion fatta per il principio del governo rappresentativo, non fosse un dato fissato in eterno». Coerente con questa concezione, Moro svolse la sua azione politica con una metodica flessibilità, adattandola alla fluidità dei processi di trasformazione della società civile, col proposito di assecondare la mobilità economica e sociale mantenendola «nel quadro di una democrazia parlamentare, che sappia però allargare le sue basi popolari tramite l’integrazione delle masse». L’apertura al partito socialista per le responsabilità di governo attuata all’inizio degli anni Sessanta, come pure la «strategia del confronto» con il partito comunista negli anni Settanta, furono le fasi successive del tentativo compiuto da Moro per superare la crisi della democrazia parlamentare coinvolgendo le masse lavoratrici.
Quale sarebbe stato l’esito del suo tentativo di integrazione delle masse nello Stato democratico è impossibile immaginarlo, perché la vita di Moro fu barbaramente stroncata dalle Brigate Rosse.
Mosse aveva dubbi sulla possibilità di successo della sua strategia, pur apprezzandola positivamente. Alcuni dubbi riguardavano la personalità dell’uomo politico, tutt’altro che propenso ad avvalersi di miti e di simboli, che invece Mosse riteneva necessari, nell’era delle masse, per coinvolgere emotivamente la gente nella politica parlamentare, specialmente in periodi di grave crisi economica e sociale.
Nel corso del Novecento, movimenti e regimi totalitari di destra e di sinistra avevano sconfitto i democratici perché avevano saputo mobilitare le masse con miti e simboli che diedero l’illusione emotiva di una partecipazione attiva alla politica, sotto la guida di un capo forte e risoluto, mentre i governanti parlamentari apparivano irresoluti, inefficienti, incapaci di garantire ordine e sicurezza, suscitando la speranza in un futuro migliore. Ispirandosi a Machiavelli, Mosse sosteneva che per vincere la sfida dei movimenti antidemocratici i governanti parlamentari dovevano imparare a usare miti, simboli, riti collettivi, insieme agli strumenti di comunicazione di massa, per convertire la gente agli ideali e alle istituzioni della democrazia liberale. E altrettanto efficace, a questo scopo, erano i governanti democratici dotati di carisma personale, come per esempio Charles de Gaulle.
Ora, siffatti espedienti “machiavellici” erano estranei alla politica di Moro. Egli non aveva la personalità di un politico di massa: «ad esempio – osservava Mosse – a lui non è mai piaciuto usare la televisione, non gli è mai piaciuto rivolgersi alla gente attraverso i mass-media», così come, all’interno del suo stesso partito, non si era assicurato «una base di potere». Inoltre, aggiungeva Mosse, «non credo che egli avesse voluto essere una specie di de Gaulle italiano». Forse per questi motivi, in un giudizio conclusivo, Mosse definiva Moro «piuttosto un innovatore del contesto politico che un riformatore di strutture politiche».
Tuttavia, nell’esperienza del politico italiano, lo storico americano vedeva riflesso il più difficile problema per un governante democratico nell’era delle masse: «Nel destino di Moro si prefigurava il paradosso della democrazia parlamentare: se si vuole essere uno statista in un sistema democratico parlamentare bisogna essere in una certa misura un capo carismatico, bisogna fare appello, a seconda dei casi, al sentimento nazionale e ad altre passioni, per condurre la gente verso nuove mete. Ma se si fa tutto ciò si corre il rischio di trasformare il sistema in una dittatura».
Mosse concluse l’intervista dichiarando di interpretare i discorsi di Moro sulla crisi della democrazia parlamentare «non tanto come proposte di soluzione della crisi immediata, quanto piuttosto come avvertimenti ai dirigenti del sistema politico italiano affinché i problemi fossero considerati seriamente, perché facevano intravedere questioni economiche e sociali più profonde», che, «se lasciate marcire, avrebbero portato alla diffusione di un cancro più generale in tutta la società italiana. E infatti questo è quanto avvenuto». L’Italia, osservava Mosse, era l’unico fra tutti i Paesi europei «che sia riuscita a sopravvivere a ben venti anni di crisi continua, a vivere per così dire sull’orlo dell’abisso, senza che s’intraveda, tra l’altro, alcuna soluzione».
Così parlava Mosse nel 1979. Dopo quasi quattro decenni, il cancro non è stato ancora estirpato dalla società italiana, mentre la navicella della democrazia, sconquassata da tempeste e da bruschi cambiamenti di comandanti e di equipaggi, continua a galleggiare attorno a un gorgo che potrebbe inghiottirla.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
George L. Mosse, Intervista su Aldo Moro , a cura di Alfonso Alfonsi, Rubbettino, Soveria Mannelli,
pagg. 116, € 14

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Il Nulla in un Articolo

Abbiamo spesso riportato articoli del Sole 24 Ore, meritevoli a nostro parere di una pubblicità specifica e di appoggio. Questa volta facciamo il contrario. Evidenziamo un articolo/contributo che rappresenta il Nulla: un intervento che non spiega nulla, non aggiunge nulla, non SIGNIFICA nulla.

Non entriamo nel merito della polemica referendaria e nelle ragioni del No o del Sì alla riforma costituzionale. Per le ragioni del No ad esempio abbiamo: http://www.ilsussidiario.net/News/Politica/2016/9/10/REFERENDUM-Mauro-4-ragioni-per-dire-no-alla-riforma-di-Goldman-Sachs-e-JPM/722691/

Aspettiamo un altro articolo altrettanto chiaro con le ragioni del sì; nel mentre ci accontentiamo di una discussione sulle èlite che, nell’immaginario dell’autore, guidano il mondo per la fortuna della plebaglia ignorante….. e aspettiamo che ci indichi il risultato del referendum (per lui da abolire) sulla base dell’aspetto lombrosiano  dei votanti.

 

Responsabilità delle élite e nuova Italia – Sergio Fabbrini – Sole 24 Ore del 11.09.2016
Era necessario che il premier Renzi si auto-criticasse per aver personalizzato il referendum sulla riforma costituzionale. Necessario ma non sufficiente. Infatti, la discussione e la battaglia sulla riforma costituzionale si svolgeranno nel merito della proposta solamente se anche gli altri leader politici eviteranno di personalizzare quel referendum.
Ma così non è. Probabilmente, ciò è dovuto all’istituto del referendum in quanto strumento di democrazia diretta. Il referendum è come un’anguilla. Anche il più esperto pescatore non riesce a trattenerla nelle mani. C’è nel referendum una logica intrinseca alla politicizzazione intesa come personalizzazione. Contrariamente a ciò che viene sostenuto da più parti, il referendum non è lo strumento per far emergere il volere del popolo, inteso come un’entità unitaria, distinto da quella delle élite politiche. Al contrario, il referendum si è dimostrato regolarmente lo strumento per avviare un regolamento di conti all’interno delle élite stesse. L’idea che ci sia un popolo che, attraverso il referendum, può finalmente esprimersi contro le élite è tanto ingenua quanto infondata. Lo stesso concetto di populismo, se utilizzato come un “passe-partout” per spiegare il malessere dei cittadini, crea più confusione che consapevolezza. La politica è sempre uno scontro tra élite, mai tra il popolo e queste ultime. Non ci sarebbe il populismo senza élite capaci di mobilitare i sentimenti di insoddisfazione diffusi in larga parte del popolo. Sono dunque le élite a essere responsabili di un esito politico o di un altro. Non il popolo.
Il voto a favore della Brexit, nel referendum britannico del 23 giugno scorso, non è stato l’espressione di una ribellione popolare nei confronti delle tecnocrazie di Bruxelles, ma un vero e proprio regolamento di conti all’interno del partito conservatore (in particolare tra Boris Johnson e David Cameron), oltre che tra una élite sovranista esterna ai partiti (rappresentata da Nigel Farage) e le leadership ufficiali dei maggiori partiti. Il voto contro il Trattato Costituzionale dell’Unione Europea, nel referendum francese del 29 maggio 2005, non fu l’espressione del malessere dei francesi contro la visione sovranazionale europea, bensì l’occasione per regolare i conti all’interno del partito gollista (del presidente allora in carica Jacques Chirac) oltre che all’interno del partito dell’opposizione (tra Francois Hollande and Laurent Fabius). La stessa logica si è manifestata nel referendum olandese del 1 giugno 2005, sempre sul Trattato Costituzionale dell’Ue, quando la contrapposizione ha seguito quasi-linearmente la divisione tra la coalizione di governo (a favore del Sì) e i partiti dell’opposizione (schierati per il No). Una logica simile si è manifestata nei referendum irlandesi sul Trattato di Lisbona, del 12 giugno 2008 (in cui il Trattato fu bocciato) e del 2 ottobre 2009 (in cui lo stesso Trattato fu invece approvato), referendum utilizzati da leader politici esterni al governo per mettere in difficoltà quest’ultimo. Potrei continuare.
Queste esperienze referendarie hanno in comune due aspetti. Primo, il referendum è diventato un sostituto delle elezioni politiche generali o delle stesse primarie di partito per definire i rapporti di forza tra gruppi di élite politiche o tra i loro leader. Secondo, il referendum, proprio per la sua natura binaria (Sì o No relativamente a una data proposta), consente a élite negative di avere un vantaggio posizionale rispetto alle élite positive. È molto più facile fare una campagna contro, che farla a favore. Tanto è vero che quando le élite negative vincono, e quasi sempre vincono nelle arene referendarie, il risultato è lo stallo se non la confusione. Brexit ha vinto, ma nessun sa nel Regno Unito come realizzare l’uscita del Paese dall’Ue. La bocciatura del Trattato Costituzionale ha vinto a Parigi e a L’Aia, ma il risultato è stato la paralisi dell’Ue che ancora non è stata risolta. Per quanto riguarda gli irlandesi, hanno dovuto smentire sé stessi per non rimanere esclusi dal processo di integrazione. Insomma, il referendum deresponsabilizza gli oppositori, che possono mobilitarsi per fare votare contro la proposta in discussione, senza essere obbligati a precisare con che cosa la sostituirebbero. Un esempio, per dirla con Francois Furet, di opposizione parassitaria.
Naturalmente, dietro i successi delle élite negative vi erano condizioni sociali ed economiche di malessere e insoddisfazione, ovvero disorientamenti culturali dei cittadini sull’identità del proprio Paese o del proprio gruppo. Ma quelle condizioni e stati d’animo possono essere rappresentati in modi diversi. In una democrazia rappresentativa, attraverso programmi realizzabili, anche se radicali. Le élite negative, invece, si limitano a utilizzare il semplicismo della democrazia diretta per mettere in difficoltà o per delegittimare chi governa. E nel fare questo, per loro, la coerenza non ha importanza. Succede così di vedere che, nel referendum costituzionale italiano, tra i leader che vogliono bocciare il progetto vi sono un ex-presidente di una commissione bicamerale che aveva approvato un progetto di riforma costituzionale molto più audace e sistemico di quello oggetto di votazione. Oppure un ex-ministro delle riforme istituzionali che ha presieduto una commissione di studio da cui il progetto Renzi-Boschi deriva, al punto da averlo votato più volte in Parlamento (durante le tre fasi costituzionalmente richieste per l’approvazione). Anche qui, potrei continuare. In tutti questi casi, le élite negative non hanno la preoccupazione di precisare cosa succederebbe in caso di una loro vittoria, qual è il loro progetto alternativo, quali le possibilità di realizzarlo. La logica referendaria non lo richiede. La rivalità che li anima glielo proibisce. Il punto è usare il referendum per portare avanti una guerra di liberazione contro il nemico.
Se è stato necessario che Renzi smettesse di parlare del suo futuro, ciò non sarà sufficiente se le componenti più responsabili delle élite politiche italiane non si mobiliteranno per fare del referendum un’occasione di educazione pubblica e non già di regolamento dei conti tra governo e opposizione. Il futuro di un Paese dipende dalla qualità delle sue élite. È stata l’irresponsabilità delle élite argentine che ha portato quel Paese, ricco di risorse, a un declino economico e politico quasi-irreversibile. È la faziosità delle élite politiche statunitensi che sta portando quel Paese a una paralisi politica che ricorda il dramma della Guerra Civile. Nessun Paese ha, per dono naturale o divino, delle élite politiche responsabili. La responsabilità delle élite politiche è un bene pubblico che va perseguito senza ambiguità. Ad esempio, non smettendo mai di ricordare a chi governa e a chi si oppone che, nel referendum costituzionale del prossimo autunno, vi saranno in gioco gli interessi del Paese e già non il destino personale di alcune élite.

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Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi

Dal Sole 24 Ore di oggi – Rubrica: Alla luce del Sole – di Luigi Zingales
Tradizionalmente la gestione del rischio delle banche era una questione matematico-quantitativa. Dopo la crisi si è capito che dietro quelle formule ci sono degli esseri umani pensanti. Per questo per controllare il rischio non si parla più solo di beta, delta o vega, ma di etica, integrità, ed esempio che emana dai vertici, quello che gli inglesi chiamano il “tone at the top.” Questo nuovo trend internazionale, codificato in un rapporto del 2015 del Bank of International Settlement (Banca dei regolamenti internazionali, Bri), oggi sta diventando la norma.
Per la prima volta la Bri identifica come una cultura aziendale volta a «rafforzare le norme per un comportamento responsabile ed etico» sia una «componente fondamentale della buona corporate governance» delle banche. La responsabilità di coltivare questa cultura spetta al consiglio di amministrazione che deve «creare aspettative che tutte le attività siano condotte in modo legale ed etico, e vigilare sul rispetto di tali valori da parte dei dirigenti e dipendenti». Il consiglio deve anche «assicurarsi che i dipendenti, compresi i dirigenti, siano consapevoli del fatto che a comportamenti inaccettabili e trasgressioni faranno seguito le opportune azioni disciplinari o di altra natura».
Le autorità di vigilanza, a loro volta, devono «fornire una guida per la supervisione e la corporate governance nelle banche , anche attraverso valutazioni complete e una regolare interazione con il consiglio e gli alti dirigenti, e devono richiedere azioni correttive e di miglioramento quando necessario». In questo spirito, in Olanda la vigilanza bancaria sottopone i candidati ai consigli delle banche a dei test psicologici, per vedere la loro attitudine ad intervenire, anche quando questo implichi contraddire l’amministratore delegato.
Sono cambiamenti radicali che purtroppo arrivano troppo tardi per evitare i disastri bancari cui abbiamo assistito, ma non troppo tardi per evitare che si ripetano. Ma quali sono le implicazioni pratiche di queste direttive in Italia?
Innanzitutto che i nuovi consigli di amministrazione di Banca Popolare di Vicenza (Bpvi), MontePaschi, Carige, e Veneto Banca hanno non solo il diritto, ma anche il dovere di iniziare l’azione di responsabilità nei confronti del management precedente qualora ci sia anche il minimo estremo giuridico. Troppo spesso questa decisione viene presa seguendo un’analisi costi/benefici di brevissimo periodo. Siccome gli ex manager si affrettano ad intestare conti e proprietà a figli e parenti, il consiglio decide che non è nell’interesse economico della società iniziare l’azione di responsabilità perché il costo è superiore al potenziale beneficio monetario (in caso di vittoria, il colpevole non ha la capienza economica per pagare). Il rapporto della Bri, invece, implica che l’azione vada intrapresa per una questione di principio: per assicurarsi che i dirigenti siano consapevoli che a comportamenti inaccettabili faranno seguito le opportune sanzioni, non solo pecuniarie ma anche morali.
In secondo luogo, il rapporto ci dice che la supervisione della Banca centrale europea ha il diritto/dovere di intervenire chiedendo modifiche della composizione dei consigli di amministrazione e dei collegi sindacali delle banche con un passato controverso. Ad esempio non è possibile che metà del consiglio e l’intero collegio sindacale della Bpvi sia lo stesso che sotto la gestione Zonin. Come può fornire un esempio di integrità e correttezza al resto del personale della banca?
Per finire, c’è la capacità di intervento del fondo Atlante, gestito da Alessandro Penati. Per decenni, sulle pagine del Sole prima e del Corriere e Repubblica poi, Penati è stato un faro che ha illuminato il dibattito sulla corporate governance in Italia. Ora che ha il potere di migliorarla, nominando e revocando il consiglio e il collegio di Bpvi ed iniziando da socio l’azione di responsabilità contro i vertici precedenti, non può tirarsi indietro. A rischio non è solo la sua credibilità, ma quella di tutti noi accademici.
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Se la democrazia perde l’equilibrio dei poteri

Rilanciamo questo importante articolo per consentire anche di accedere ai riferimenti, come la biografia del giudice Scalia, in esse contenuti.
Dal Sole 24 Ore di oggi. – Diritti Riservati – Guido Rossi
La grande crisi finanziaria e la recessione che hanno colpito l’Occidente non riescono ancora a trovare, nonostante le incalcolabili e spesso indigeribili ricette di economisti e politici, una soluzione dignitosa. Ma quel che è più grave è che siffatta crisi si è accompagnata con una rottura, per la quale non esistono neppure ricette, del più solido meccanismo di governo politico, che era costituito dai principi che Montesquieu aveva lasciato alle democrazie liberali con la dottrina della divisione dei poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario, a totale ed assoluta difesa della libertà contro il dispotismo, il cui fondamento sta appunto nella concentrazione dei poteri. Assistiamo alla rottura più grave con il venir meno della capacità del potere legislativo di affrontare la globalizzazione e l’enorme sviluppo tecnologico che l’accompagna. Non a caso, il 1° marzo 2014, il New York Times pubblicava come editoriale “The Dying Art of Legislating”, dove elencava l’incredibile abbandono del Congresso americano da parte di molti suoi membri, riconosciuti capaci legislatori (21 membri della Camera e 6 senatori), frustrati e disgustati dalla incapacità del legislativo di proporre qualsivoglia legge per affrontare una situazione interna ed esterna che non si presentava così difficile da anni.
E non è neppure un caso che anche la situazione economica non sia, dopo così tanto tempo, affatto migliorata e che anzi, come hanno accusato Krugman e Reich, l’assopimento quasi totale della politica antitrust ha fatto prosperare i monopoli in generale e, nell’ambito della nuova economia, i “Barons of Broadband” e il loro potere monopolistico nelle telecomunicazioni. Il riferimento ai “Robber Barons” del capitalismo degli anni ’20 del secolo scorso non è per nulla casuale.
La situazione americana si è aggravata nel febbraio di quest’anno, con l’improvvisa scomparsa di uno dei giudici più influenti della Corte Suprema: Antonin Scalia. Nominato circa or son trent’anni dal Presidente Reagan, ha certamente condizionato, con la sua dottrina e il suo carattere, spesso aggressivo, le maggiori decisioni della Corte Suprema. Pur facendo parte dell’ala conservatrice, e determinando sovente le decisioni con una maggioranza di 5 a 4, in molti casi se ne discostò scrivendo “dissenting opinions” rimaste esemplari. La miglior definizione della sua dottrina – che considerava la sola valida Costituzione, la “dead Constitution”, una Costituzione morta e non una “living Constitution”, cioè una Costituzione vivente, dove ogni Giudice avrebbe potuto inserire, nell’interpretazione, le sue ideologie politiche – è contenuta nel recente libro di Bruce Allen Murphy, “Scalia: a Court of one”.
Spetterebbe costituzionalmente ora al Presidente Obama nominare il nono giudice, ma il Congresso a maggioranza repubblicana in più sedi ha già dichiarato che non approverà mai una sua nomina. E non è un caso che il giudice conservatore Alito abbia dichiarato, facendo anche riferimento a casi passati, che la Corte Suprema può benissimo essere composta da membri di numero pari. Ed è quello che finora è successo, anche nelle più importanti decisioni che dovevano essere prese. La Corte Suprema, con votazioni di 4 a 4, ha rinviato alle Corti inferiori senza decidere argomenti importanti come le restrizioni in tema di aborto alle cliniche in Texas, le decisioni sull’immigrazione e l’obbligo per tutti i lavoratori dei servizi pubblici in California – anche coloro che non sono iscritti – di pagare la quota al sindacato. La Corte Suprema sembra quasi ibernata e uscita dalla posizione di protagonista che ha sempre avuto nella politica americana, riproducendo nel suo ambito una divisione ideologica che la porta all’immobilismo.
Altre volte nel populismo dei partiti politici e nel disastro economico che è andato aggravandosi, il potere giudiziario ha assunto funzioni di supplenza, prendendo ad esempio decisioni drammatiche nelle crisi politiche. Questo spiega il caos che sta succedendo in Brasile, nei confronti dell’impeachmentdella Presidente Dilma Rousseff e dei provvedimenti contro l’ex Presidente Lula. In un lunghissimo articolo sulla London Review of Books dell’8 aprile, dal titolo “Crisis in Brazil”, Perry Anderson presenta un elegante e dettagliato paragone, pur con le relative differenze, tra l’Italia di Tangentopoli degli anni ’90 e il Brasile di oggi. La confusione è enorme, i disordini sociali elevati e gli attacchi alla politica e allo Stato in generale alimentano un diffuso populismo, sicché si dovrà attendere molto per un chiarimento. Anche negli Stati Uniti le stesse elezioni presidenziali sono condizionate dalla possibilità o meno di ricostituire la completezza della formazione della Corte Suprema, a dimostrazione di quanto il potere giudiziario sia considerato rilevante.
Gli attacchi alla magistratura, anche attraverso intralci al suo funzionamento, sono estremamente pericolosi. Nel nostro Paese, è ben singolare che uno dei maggiori centri del potere giudiziario contro la corruzione, cioè la Procura di Milano, non abbia da mesi il suo capo, mentre si aprono ingiustificate polemiche nei confronti della libertà politica di espressione dei giudici. È dunque venuto il momento che l’equilibrio tra i poteri dello Stato sia ristabilito e garantito, ad evitare derive di ogni tipo, e che la giustizia torni ad essere il perno della democrazia.
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Non la carità ma il diritto – Dal Sole24Ore – Luigi Zingales

L’articolo definitivo di Luigi Zingales sulla questione Etruria. Dopo questo non c’è più altro da dire.
 
Una crisi è un’opportunità da non sprecare. Questo vale anche per il recente crack di tre casse di risparmio e una banca popolare. Anche se per chi ha perso tutto è una tragedia, nel contesto del mondo bancario si tratta di una piccola crisi, che può essere estremamente utile per evitarne di maggiori in futuro. Affinché questo avvenga, però, è necessario evitare reazioni emotive e pensare a come le decisioni che oggi prende il governo avranno impatto sugli incentivi dei risparmiatori, dei banchieri, e dei regolatori in futuro.
Nel caso dei risparmiatori è pericoloso sia il buonismo (sono tutti vittime) che un’applicazione troppo rigida del caveat emptor (il compratore deve stare attento). Il buonismo autorizzerebbe tutti i risparmiatori a rimanere ignoranti, piantando i semi della prossima crisi. Un’applicazione troppo rigida del caveat emptor, però, non solo creerebbe il rischio di una crisi futura, ma la farebbe esplodere immediatamente. Se il risparmiatore, che deposita i propri risparmi in banca o si affida al funzionario bancario per investirli in titoli sicuri, deve esercitare cautela, avremo in poco tempo una corsa agli sportelli: quale risparmiatore è in grado di valutare l’attuale solvibilità delle banche italiane? Proprio per evitare questo costo, la nuova legge sul bail-in stabilisce che tutti i depositi fino a 100mila euro siano assicurati anche con fondi europei. Il risparmiatore può rimanere ignorante, basta che divida i suoi depositi tra banche diverse, rimanendo in tutte al di sotto della fatidica soglia.
Un discorso leggermente diverso vale per gli investimenti in obbligazioni. Non è pensabile che un piccolo risparmiatore si legga 60 pagine di prospetto, per di più scritte in legalese, ma non è neppure pensabile garantire tutti. Se si vuole che costoro continuino ad investire in obbligazioni bancarie è necessario rendere più facile distinguere tra quelle più o meno rischiose (ben consapevoli che nessuna è priva di rischio). In questo senso vanno le proposte del Manifesto del Sole. Ma nulla contano le regole, se non vengono fatte rispettare. Per questo è necessaria un’azione risarcitoria aggressiva nei confronti di tutti i possibili controllori: dagli amministratori ai sindaci, da Consob a Bankitalia.
Questa azione non deve essere effettuata per compiacere il desiderio di rivincita dei risparmiatori inviperiti, ma per creare i comportamenti virtuosi in futuro e rassicurare i risparmiatori che abusi futuri non saranno tollerati. La lista dei possibili responsabili è lunga. Innanzitutto bisogna accertare i responsabili della vendita di prodotti rischiosi a risparmiatori inconsapevoli. La colpa non è solo di qualche funzionario furbo. Se si incentivano i dipendenti a piazzare questi prodotti presso la clientela, bisogna per lo meno assicurarsi di avere un sistema di compliance a prova di bomba, per evitare gli inevitabili abusi provocati da quegli incentivi. Se questo sistema non c’era, la colpa non è solo del capo filiale, ma del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale. La colpa è anche di chi ha il dovere di vigilare la governance delle banche, ovvero Bankitalia. Il sistema di incentivi e quello di compliance sono il cardine della governance interna di una banca. Bankitalia ha controllato e approvato entrambi? Last but not least, c’è la Consob, responsabile dell’applicazione della Mifid. Quanti controlli ha fatto la Consob negli ultimi tre anni sull’applicazione della Mifid agli sportelli bancari? Ci farebbe piacere saperlo.
Poi esistono le responsabilità riguardanti la gestione delle banche coinvolte. È vero, come scrivono alcuni giornali, che in Banca Etruria ci fossero molti prestiti ai consiglieri di amministrazione e parti correlate? Se così fosse, sono state seguite le norme di legge? I collegi sindacali, la Consob e la Banca d’Italia si sono preoccupati di controllare che queste norme fossero seguite? Queste responsabilità civili devono essere accertate, per assicurarsi che in futuro ci sia la massima attenzione su questi temi in tutte le banche.
Infine esistono le responsabilità riguardanti la comunicazione al mercato. I bilanci fornivano una ricostruzione adeguata della situazione? Se così non fosse, ci sarebbe una responsabilità non solo dei consiglieri di amministrazione e dei sindaci, ma anche dei revisori esterni. Per finire, nelle sue ispezioni delle quattro banche coinvolte la Banca d’Italia aveva individuato delle rilevanti carenze. Queste carenze erano adeguatamente riflesse nei prospetti informativi? Giustamente si dice che come il paziente deve leggere il bugiardino dei medicinali, così deve fare il risparmiatore. Ma se il bugiardino mente sulla composizione è colpa del paziente o della ditta farmaceutica e delle autorità sanitarie che questa ditta farmaceutica avrebbero dovuto controllare? Se il risparmiatore non può più fidarsi del prospetto, il nostro sistema bancario non è più in grado di finanziarsi sul mercato.
Questa azione risarcitoria non ha solo la funzione di produrre gli incentivi giusti per il futuro, ha anche la possibilità di fornire un parziale recupero a chi è stato truffato (chi non lo è stato, non merita alcun indennizzo). Dopo la colossale truffa di Madoff, il governo americano non ha indennizzato le vittime, ma ha nominato un avvocato famoso per la sua aggressività, Irving Picard, per recuperare la maggior quantità di denaro possibile da chi avrebbe dovuto controllare e non l’aveva fatto. Picard ha fatto causa a tutti i responsabili, senza guardare in faccia a nessuno. Il risultato è che le vittime hanno recuperato oggi il 60% delle perdite. Lo stesso dovrebbe fare il governo italiano, invece di usare il fondo di garanzia interbancario. Affinché questa azione abbia qualche possibilità di successo, però, il governo non deve nominare un avvocato amico degli amici. Ci vuole qualcuno che venga da fuori e non guardi in faccia a nessuno. Non solo aiuterà le vittime, aiuterà anche il sistema finanziario italiano a funzionare meglio.
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Luigi
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IL CALCIO GIOCA SU INTERNET.

Parte la trasmissione delle partite di calcio sulla “TV della Lega” fruibile esclusivamente tramite dispositivi elettronici: pc, telefoni portatili, internet, smart tv; si inizia con 3 partite ogni fine settimana, per un totale di 114 partite della stagione 2015-2016, il c.d. “pacchetto E” — esercitabile in piattaforme internet, Iptv, telefonia mobile in modalità Ott – che non è stato assegnato in sede di asta perché ritenuto troppo caro (base: 108 milioni) da Sky (che ha ottenuto la serie A per 572 milioni, su piattaforma satellitare) e Mediaset (che con 373 milioni ha acquisito i diritti per le partite delle prime 8 squadre, su piattaforma Dtt digitale terrestre); “pacchetto E” che è “prodotto” da Infront, assegnatario della funzione tecnica e di sviluppo da parte della Lega.

La visione di ogni partita costerà 2 euro, limitata ai clienti Tim: altri accordi con operatori di telefonia mobile sono allo studio. Da questo servizio la Lega si attende un incasso di 5 milioni a stagione, meno dei 108 milioni attesi. La gara di tutte le partite dello sport preferito dagli italiani (rigorosamente accomodati in divano) ha reso complessivamente 945 milioni (meno dei 1.075 milioni previsti dall’advisor Infront, ma più dei 829 milioni incassati nel 2014-2105): una manna dal cielo, e sarà interessante scoprire come saranno spesi, e non sperperati.